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1 maggio. È festa per i lavoratori della cultura?


Gli indici occupazionali post-laurea nel settore culturale italiano rimangono ancora bassi
Gli indici occupazionali post-laurea nel settore culturale italiano rimangono ancora bassi

Al netto dell’emergenza sanitaria e delle chiusure, i lavoratori del settore culturale possono “santificare” il 1 di maggio? Andiamo a vedere cosa significa essere un professionista dei beni culturali.


Dal 1985, il primo governo Craxi elaborò la dottrina del patrimonio culturale come il “petrolio d’Italia”, che aprì la strada all’idea secondo cui “I beni si devono mantenere da soli, anzi devono mantenere il Paese”, dunque cederli alla privatizzazione.


La valanga neoliberistica – che in questi giorni produce i risultati sperati – non ha solo cambiato radicalmente il modo di percepire il patrimonio, ma anche il lavoro di chi dovrebbe tutelarlo e valorizzarlo. A seguito del Jobs Act e altre varie riforme, anche i lavoratori della cultura vivono il precariato, il lavoro interinale e intermittente, se non peggio, sono costretti ad aprire partite iva per lavorare, di fatto, come dipendenti, senza garanzie e ammortizzatori.


Lavorare nei grandi musei pubblici, come gli Uffizi a Firenze, è possibile oggi passando tramite agenzie di lavoro, appaltatori e affini. I contratti, spesso, non sono nemmeno quelli della categoria: troppi sono gli esempi di addetti all’accoglienza – persone formate con lauree in storia dell’arte – che firmano contratti “multiservizi”. I dirigenti, così come i direttori dei grandi istituti, sono sempre più di frequente manager con formazione in economia e marketing, per non parlare dei musei privati, gestiti come SRL a scopo di lucro.


Nonostante tutto questo, il settore culturale è stato da decenni dilapidato delle sue risorse e a farne le spese sono i lavoratori, ai quali si preferiscono sempre di più i ragazzi del servizio civile (439,50 euro al mese), i tirocinanti curriculari o extracurriculari e addirittura i volontari.


Contro questo sistema sono nate in questi anni numerosi comitati, gruppi e collettivi che cercano di raccogliere i lavoratori per dargli voce e far valere i propri diritti. E dare voce ai diritti di chi lavora nella cultura significa dare voce al patrimonio di tutti.



Articolo redatto in collaborazione con Caffè Michelangiolo


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