Il matrimonio rinviene nella parità dei coniugi uno dei principi fondamentali dettati tanto dalla Carta Costituzionale, agli artt. 3 e 29 (ove si precisa che “il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”) quanto dagli artt. 143 e 144 del Codice Civile.
Tali norme precisano che il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti, assumono i medesimi doveri e concordano, bilateralmente, l’indirizzo della vita familiare.
Tuttavia, nonostante la determinazione del generale indirizzo familiare sia rimessa all’ accordo comune di entrambi i coniugi, tale parità non pare possa estendersi in punto di attribuzione del cognome al figlio nato in costanza di matrimonio.
L’indirizzo classico ha da sempre accolto la regola dell’attribuzione del cognome paterno posto che, anche a fronte dell’assenza di una puntuale norma codicistica sul punto, la stessa può comunque desumersi dalla lettura combinata di alcune norme contenute all’interno del Codice Civile.
In primis l’art. 262 cc che, relativamente al cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, prevede che lo stesso assuma il cognome del genitore che lo riconosce per primo; qualora, tuttavia, il riconoscimento venga effettuato congiuntamente da entrambi il figlio assume il cognome del padre.
Inoltre, qualora la filiazione nei confronti del padre venga accertata o riconosciuta successivamente rispetto al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o addirittura sostituendolo a quello della madre. In questi casi è necessario avere riguardo al diritto del figlio alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell'ambiente in cui è vissuto, anche con riferimento alla famiglia in cui è cresciuto, nonché ad ogni
altro elemento di valutazione suggerito dalla fattispecie, esclusa ogni automaticità.
Da una simile norma ben emerge come il legislatore abbia dato prevalenza all’attribuzione del cognome paterno, permettendo a quest’ultimo di sostituirsi a quello materno e non anche il contrario.
Altra norma da cui può desumersi la conferma dell’indirizzo classico del patronimico è quella prevista dall’art 299 cc relativo all’adozione di persone maggiorenni. Il comma 3 prevede che se l’adozione è compiuta da coniugi, l’adottato assume il cognome del marito.
Dunque, queste due disposizioni, pur non delineando espressamente, una volta per tutte, la regola generale valevole per l’attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, dimostrano, senza alcun dubbio, un favor per il cognome paterno e colmano, in via analogica, la lacuna normativa.
Una volta illustrata la regola generale in punto di attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, occorre interrogarsi circa la compatibilità della stessa con i principi generali e costituzionali posti a fondamento della disciplina matrimoniale, tra cui, come sopra
preannunciato, il principio di parità dei coniugi.
Di tale questione è stata investita la Corte Costituzionale, la quale, tuttavia, ha rigettato la questione di illegittimità costituzionale posto che si tratta di una materia riservata esclusivamente al legislatore e non rientrante, in alcun modo, nella sua sfera di competenza.
Tale orientamento è stato accolto con favore solo da un ramo minoritario della dottrina e della giurisprudenza. Per sostenere la legittimità dell’imposizione del cognome paterno si fece leva sia sulla garanzia dell’unità familiare, sia sul comma 2 dell’art 29 Cost prevedente la possibilità di disporre limitazioni alla parità dei coniugi, qualora dovesse risultare necessario. Inoltre, la regola in esame risultava necessaria al fine di assicurare simmetria con l’art. 143 bis cc secondo cui “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. Il cognome maritale risultava necessario per identificare il nucleo familiare all’esterno.
Successivamente, tuttavia, ci si è resi conto di quanto questa regola non fosse al passo con i tempi, dimostrandosi piuttosto un retaggio tradizionale in via di superamento.
Il primo segnale di un’evidente apertura è stato dato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (II sez., 7 gennaio 2014, caso Cusan e Fazzo c. Italia) che nel 2014 ha condannato l'Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendogli negato la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre.
Nella specie, la richiesta congiunta dei coniugi per l’attribuzione del cognome materno alla figlia era stata respinta dall’ufficiale dello stato civile, che aveva d’ufficio attribuito il cognome paterno. Il Tribunale di Milano aveva quindi rigettato il ricorso dei genitori ritenendo che, anche se nessuna disposizione legale imponeva di registrare un bambino nato da una coppia sposata con il nome del padre, questa regola corrispondeva ad un principio radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana.
I ricorrenti, infine, esaurite le vie giurisdizionali interne, si sono rivolti alla Corte EDU, lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione (che protegge la famiglia), da solo o in relazione all’art. 14 (che vieta le discriminazioni di genere), nonché la violazione dell’art. 5 del protocollo addizionale alla Convenzione n. 7 (che sancisce l’uguaglianza tra i coniugi tra loro e nelle loro relazioni con i figli).
La Corte di Strasburgo, pur nella consapevolezza dell’assenza di previsione espressa sul punto nell’art. 8 Conv, ha dedotto l’applicabilità dell’art. 14 e del divieto di discriminazioni tra i sessi in esso contenuto e ha così condiviso l’assunto dei ricorrenti secondo i quali le disposizioni della legge nazionale non garantivano la parità tra i coniugi ed ha ritenuto che l'Italia avrebbe dovuto prevedere la possibilità di assegnare il nome della madre, se vi fosse consenso dei genitori su questo punto.
La pronuncia della Corte EDU ha avuto il merito di far luce su una questione molto rilevante dal punto di vista giuridico e sociale, che invece il legislatore italiano non aveva preso in considerazione nonostante le ingenti modifiche apportate pochi anni prima al diritto di famiglia ed il consolidarsi di una visione più moderna dei rapporti interfamiliari. Il percorso da compiere è ancora in itinere, ma nel 2016 la Corte Costituzionale ha deciso di smuovere l’immobilismo del sistema normativo ancora arretrato: con la sent. 21 Dicembre 2016, n.286 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. nella parte in cui non consente ai genitori, che ne facciano richiesta di comune accordo al momento della nascita, di attribuire al figlio anche il cognome materno.
La Consulta ha esordito ribadendo di aver sempre condiviso tale orientamento, ma di essere stata costretta ad indugiare per consentire un intervento legislativo in materia: nella sentenza in commento, dunque, ha affermato con forza che la regola della automatica attribuzione del cognome paterno è contraria ai dettami costituzionali e pregiudica tanto il diritto all’identità personale del minore (art. 2 Cost.), quanto il principio di uguaglianza tra coniugi, comportando così un’irragionevole disparità di trattamento tra di essi, che non trova alcuna giustificazione nella salvaguardia dell’unità familiare (di cui all’art. 29 co.2 Cost.).
Il nome e il riconoscimento dell’eguale rilievo delle due figure genitoriali costituiscono elementi fondamentali nel processo di affermazione dell’identità personale; pertanto la effettiva concretizzazione di tale principio, a detta della Corte, impone il diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno e non soltanto con quello del padre. Il cognome originario, in quanto segno distintivo della personalità sociale, sancisce l’appartenenza dell’individuo ad un gruppo familiare e, di conseguenza, consente la sua identificazione.
Per quanto riguarda il secondo profilo di illegittimità, il Giudice delle leggi, ha sostenuto che a turbare l’unità familiare di cui si parla in Costituzione è proprio il venir meno della parità tra coniugi, nel momento in cui viene mortificato il diritto della madre a che il figlio assuma anche il suo cognome.
E’ sulla base di queste argomentazioni che la Corte Costituzionale, già nel 2016, ha rinvenuto nella norma vigente in materia di attribuzione del cognome l’espressione di una concezione patriarcale ed ormai superata della famiglia e dei rapporti tra coniugi, nonché una violazione dei principi di uguaglianza e di pari dignità morale e giuridica degli stessi.
Tuttavia, per effetto della sentenza citata, in assenza di un accordo tra i genitori debitamente manifestato, resta ferma la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno; ma la Corte ha sottolineato ancora una volta la necessità di un intervento del legislatore, ritenuto indifferibile.
La “rivoluzione” iniziata nel 2016 non ha ancora raggiunto il massimo compimento, nonostante le reiterate sollecitazioni da parte dei giudici costituzionali per una rimodulazione dell’intera disciplina; pertanto le storture di un simile sistema continuano tutt’ora ad emergere: è dell’11 Febbraio 2021 l’ordinanza con cui la Consulta ha sollevato dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 262 co.1 c.c., nella parte in cui impone l’acquisizione del cognome paterno alla nascita, in mancanza di diverso accordo tra i genitori.
Nel caso specifico, il Tribunale di Bolzano era stato chiamato a decidere riguardo ad un ricorso proposto dal pubblico ministero per ottenere la modifica dell’atto di nascita di una bambina, a cui i genitori, non coniugati, avevano deciso concordemente di attribuire soltanto il cognome materno.
Il giudice remittente ha ravvisato la non manifesta infondatezza della questione nella misura in cui la disposizione contenuta nell’art. 262 co.1 c.c., anche laddove venga interpretata alla luce della precedente sentenza del 2016, sembra precludere la possibilità prospettata dalla coppia, configurando in tal modo – ancora una volta – la violazione del diritto all’identità personale, del principio di uguaglianza tra uomo e donna e della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, rispettivamente contenuti negli artt. 2, 3 e 117 Cost. in relazione agli artt.8 e 14 CEDU.
La Corte Costituzionale con l’ordinanza in analisi prende nuovamente le redini della situazione e, ai fini della definizione del giudizio, dispone dinnanzi a sé la trattazione della questione pregiudiziale relativa alla legittimità costituzionale dell’art.262 co.1 c.c., nella parte in cui, laddove manchi un accordo, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno anziché dei cognomi di entrambi i
genitori.
Ad ogni modo, in attesa della pronuncia della Corte, va detto che tutt’ora l’attività parlamentare in materia di attribuzione del cognome è del tutto ferma e l’ordinamento risente di una certa inadeguatezza rispetto alla nuova concezione del sistema famiglia.
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