Autore: #ViolaBuzzoni
Il Natale è alle porte e tutti dovremmo (in teoria) essere entusiasti di ciò.
Come se quest’anno fosse uguale agli altri.
Come se non avessimo la sensazione che il coronavirus ci abbia portato via qualcosa di speciale.
Il 2020 ci ha pur sempre sottratto una porzione di tempo che non tornerà, per quanto ci sforziamo di pensare che “andrà tutto bene”. Non c’è da stupirsi quindi se molti di noi non si sentiranno in vena di festeggiamenti, canti e regali quest’anno. Sarebbe più semplice, e forse meno doloroso, evitare di riconoscere come sia effettivamente quasi un anno che le nostre vite sono in standby.
Il fatto è reso ancora più evidente dall’arrivo dell’ennesimo Natale, che quasi come un compleanno, ci forza a rivalutare quello che abbiamo lasciato per strada, ma anche quello che di prezioso ed imprescindibile è rimasto. Nonostante tutto.
Da sempre l’uomo tuttavia è, volente o nolente, bisognoso di vicinanza. Pensiamo soltanto ai tentativi che quotidianamente facciamo, con webcall, telefonate, messaggi, non per essere funzionali “a distanza”, ma proprio per mantenere la vicinanza di cui abbiamo disperatamente bisogno.
La letteratura ci è sempre venuta in aiuto in momenti in cui la realtà diventava pesante portandoci all’attenzione personaggi in cui possiamo riconoscere parti di noi stessi.
Nel racconto del 1957 scritto dal disegnatore americano Dr. Seuss facciamo la conoscenza di un personaggio per alcuni già familiare: il Grinch. Un buffo essere umanoide dalla forma strana e coperto di peluria verde che con i suoi occhietti gialli ha come unico obiettivo rovinare il Natale per gli abitanti della vicina cittadina di Chinonso.
Anche se nasce da un racconto per bambini, al lettore giunge subito un fortissimo senso di scontrosità quasi selvatica e inspiegabile che questa creatura nutre non solo per gli umani del paese vicino, incentrato tutto l’anno sulla venerazione delle tradizioni natalizie, ma soprattutto per i canti di Natale. Questi ultimi gli risultano a dir poco insopportabili, tanto da scatenare ogni volta un nuovo piano per la rovina definitiva delle festività condito da frequenti crisi d’ira.
In un altro racconto altrettanto famoso ma precedente, troviamo il personaggio di Ebenezer Scrooge. Sto parlando di “Canto di Natale” scritto da Charles Dickens nel 1843, in piena età vittoriana, quando le usanze come l’addobbo dell’albero erano appena state importate dalla Germania. Anche in questo caso il disdegno che il protagonista nutre verso il Natale e la sua misantropia, contornata da una incredibile avarizia sono i primi tratti che definiscono il personaggio fin dall’inizio del romanzo. Egli risulta perfino capace di rifiutare un po’ di elemosina ad un bambino che lo aveva avvicinato offrendo in cambio di pochi spiccioli di cantare per lui.
Il freddo della sua anima è rappresentato in modo quasi tangibile dall’interno della sua enorme casa, nella quale accende soltanto il camino della propria camera per non sprecare denaro in legna da ardere, per quanto necessaria. I suoi vestiti sono logori nonostante l’enorme quantità di denaro che possiede, sommata a quella che era appartenuta al vecchio socio Marley (passato a miglior vita anni prima).
Quando eravamo piccoli però non credo sia mai capitato a nessuno di noi, se non a pochissimi, di considerare il Natale come l’ennesima cosa da mal sopportare, anzi, scommetto che al comparire delle prime luci un po’ di calore in più sembrava entrare automaticamente nelle nostre case.
Crescendo le cose cambiano, la vicinanza forzata con i nostri cari spesso diventa il fattore scatenante di non pochi momenti di nostalgia, se non vera e propria crisi. Subito associamo quelle sensazioni al Natale, che di per sé non è responsabile di niente di brutto. È solo una festa.
Quest’anno a maggior ragione il malumore ribolle più che mai e sfido chiunque a non sentirsi un po’ vicino ai personaggi che abbiamo appena citato.
Scavando però un po’ di più nelle loro storie scopriamo come ci siano stati anche per loro degli eventi, delle circostanze, che alla fine gli hanno reso le festività così indigeste.
Da un lato, leggendo il racconto del Dr. Seuss ci rendiamo proprio conto di come il Grinch abbia sempre sofferto, fin da bambino, il fatto di essere “diverso”, di come i bambini lo prendessero in giro e non avesse amici. Nonostante fosse sempre stato scontroso fin da piccolo, non era del tutto avverso all’ossessione natalizia dei – Chi - anzi, riusciva benissimo a conviverci.
Il vero problema fu quando decise di confezionare un addobbo per la bambina per cui si era preso una cotta. L’unica volta in cui si fosse mai concesso di concedersi allo spirito delle feste, viene non solo rifiutato da Sarah May, ma riceve anche una dose abbondante di prese in giro per aver tentato di farsi la barba e pettinarsi come un bambino “normale”.
Da quel momento l’odio per le feste, che gli ricordano questo momento doloroso lo pervade e decide di ritirarsi sul Monte Crumpit che sovrasta la valle in cui si trova la cittadina di Chinonso.
Al contrario, per quanto riguarda Scrooge, la prima parte del libro ci mostra un uomo avanti con gli anni che, nonostante gli vengano continuamente offerte possibilità di socializzazione e compagnia, ogni giorno sceglie attivamente la propria solitudine.
“Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L’estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che cadesse più fitta.”
La sua quotidianità prosegue nella noia della sua lugubre casa, finché, dopo l’apparizione dell’ex socio Marley che lo mette in guardia, si manifesta il fantasma del Natale passato. Egli, nella visione in cui trasporta il protagonista (e noi con lui), gli mostra il sé stesso bambino, come in realtà venisse sempre lasciato in collegio dai genitori anche durante le festività, costretto a vedere i propri compagni coccolati dai genitori, pieni di dolcetti e abbracci.
In un primo momento sembra che questo primo flashback non abbia sortito nessun effetto, ma subito dopo il fantasma si rende conto di come il vecchio, gelido Scrooge, dopo aver vissuto di nuovo la sua infanzia solitaria fosse scoppiato a piangere.
La comparsa successiva del fantasmi del Natale presente e futuro ha sul protagonista del romanzo di Dickens un effetto pressoché miracoloso. La visione di quanto in realtà sia stato cieco alla sofferenza altrui e di quello che, in conseguenza potrebbe essere il suo futuro lo sconvolge talmente tanto che decide di cambiare vita, vivendo in modo giusto e riconoscendo il vantaggio di apprezzare l’affetto che gli viene donato in maniera incondizionate dalle persone a lui vicine.
Per quanto riguarda il Grinch invece, dopo aver rubato tutti i regali di Natale dalle case di Chinonso, è sul punto di gettarli giù dalla montagna e riuscire nel suo intento di distruggere quella che per lui non è altro che una disgustosa felicità, esibita a più non posso dai suoi concittadini. Se non che, improvvisamente sente un canto natalizio. Gli tornano alla mente i sentimenti che provava quando ancora si concedeva di essere felice durante le feste e non era bloccato dalla paura di essere ferito. Questa col tempo aveva finito per farlo incattivire sempre più finché era arrivato a godere della sofferenza altrui.
Il cambiamento è quasi repentino e il protagonista si rende conto che i festeggiamenti a Natale sono frutto non di regali, per quanto ricchi ed abbondanti, ma dei legami con agli altri.
Quello che alla fine salta agli occhi è come in realtà questi due personaggi, creati da menti molto diverse e a distanza di più di cento anni, siano in realtà estremamente simili nella sofferenza che si portano dentro. La mancanza di amici, di affetto, li hanno portati all’isolamento per paura di non essere accettati, di essere di nuovo feriti dalle persone che sentivano più vicine.
La nostra cultura, per quanto tecnologicamente evoluta - già prima della pandemia che stiamo attraversando - ci aveva portato ad un evidente allontanamento gli uni dagli altri, e non a caso la maggior parte della comunicazione anche fra adulti, si svolge tramite WhatsApp o in generale attraverso uno schermo. Anche la classica telefonata, che durante la nostra infanzia era diffusissima, sta lentamente scomparendo. Il sentire la voce di qualcuno all’altro capo della rete ci fa alle volte uno strano effetto, come se la vicinanza, anche se fittizia, fosse a un tratto uno stimolo eccessivo al quale preferiamo sostituire con un messaggio. Pianificabile, cancellabile, quasi impossibile da sbagliare.
Tutti noi siamo coscienti che quest’anno le feste saranno diverse. Anche comprare qualche regalo è diventata un’impresa difficile data l’impossibilità di esplorare negozi a piacimento per individuare l’oggetto giusto per la persona giusta.
Non tutte le difficoltà sono insormontabili e forse in un anno così terribilmente strano la possibilità che ci viene data paradossalmente è di lasciare indietro qualche legame troppo stretto con la materialità e riflettere sui rapporti umani che la pandemia ci ha tolto. Non ci sarà bisogno di mascherare dietro un regalo perfetto quanto vogliamo bene a qualcuno o quanto ci manchi. Nonostante la lontananza, abbiamo l’occasione di cambiare prospettiva e concederci un po’ di umanità.
Molti hanno tirato in ballo la necessità di “salvare il Natale” o di riprenderci un Natale che ci è stato “rubato”.
Personalmente credo che, come in tante altre situazioni, il Natale sia perfettamente capace di salvarsi da solo, se avremo il coraggio di capire quanto potere in realtà ci sia rimasto. O forse… quanto ne abbiamo sempre avuto.
E tu, pensi di riuscire in questa “impresa”?
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