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Fabrizio De André: colui che cantò gli umili traghettando la musica italiana verso la modernità.

Faber
Fabrizio De Andre, in arte Faber. Credits: Pinterest

Provare a dire cosa è stato Fabrizio De André, conosciuto anche come Faber, per la musica italiana è un’impresa piuttosto ardua per chi scrive, considerando che le parole eventualmente usate potrebbero risultare troppe o troppo poche.


Certo è che se sentiamo l’esigenza di provare a raccontarlo tutt’oggi, a 22 anni dalla sua morte, avvenuta l’11 gennaio 1999, è perché è tutt’ora presente nella memoria collettiva del nostro Paese. Ciò non solo perché vi sono diversi monumenti e piazze a lui dedicate che testimoniano la presenza concreta di De André su questa terra a coloro che, durante i suoi anni di attività musicale, non erano neanche nati, ma soprattutto perché riscontriamo un’attualità sconvolgente in testi e tematiche affrontate che ci danno la sensazione che Faber sia ancora qui con noi a passare a setaccio la realtà circostante per poi farcela osservare attraverso la sua lente.

Il merito principale che gli si può riconoscere è quello di aver traghettato la canzone d’autore italiana verso la modernità, per usare le parole del giornalista Massimo Cotto “De André è l’uomo che ha preso a picconate il muro bianco della canzone italiana e ha fatto vedere quello che c’era dietro: un mondo vero, un’umanità disparata e a volte anche disperata ma viva, vera. Non sempre onesta ma che andava giudicata attraverso metri diversi, perché se non son gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.”


Definito “il cantautore degli emarginati” o “il poeta degli sconfitti” per la sua tendenza a parlare nelle sue canzoni degli umili, dei poveri, a descrivere le vite di ribelli, emarginati, tossicodipendenti, alcolizzati, prostitute, transessuali, i c.d. “diversi”, più in generale coloro che “viaggiano in direzione ostinata e contraria col loro marchio speciale di speciale disperazione”. Erano questi gli “eroi” dei testi di De André coinvolti in romantiche disfatte, magnifiche illusioni e feroci ingiustizie. Egli rinviene tratti nobili in ognuna di queste categorie al contrario dei più che riuscivano a vederne solo i tratti disdicevoli, e, nel farlo, fa emergere quelli più ignobili e ipocriti dei loro accusatori. Detto in soldoni: De André ha cantato tutto quello che l’Italia democristiana non avrebbe voluto udire.

Le canzoni di Faber non hanno costituito un semplice sollazzo per le orecchie poiché i testi possono esser considerati dei veri e propri componimenti poetici, tanto da trovar posto in diverse antologie scolastiche (maggiormente “La guerra di Piero” e “Bocca di Rosa”), nonostante lo stesso in un’intervista sottolineò di non definirsi poeta ma cantautore, nel farlo cita Benedetto Croce secondo cui, fino a 18 anni tutti scrivono poesie, dopo quell’età rimangono in due categorie a scriverle, i poeti e i cretini, “io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”, queste le sue parole a riguardo in un’intervista del 1988.



Per provare a spiegare in maniera più concreta lo stile e la poetica nei testi di De André mi accingerei ad analizzare quella che forse è la mia preferita fra le canzoni di De André (nonché mio personale portafortuna alla maturità) ovverosia “Un Giudice” pubblicata nel 1971 come singolo estratto da “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”.


Qui di seguito il testo:


1) “Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura?

ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,

o la curiosità di una ragazza irriverente

che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani

che siano i più forniti della virtù meno apparente

fra tutte le virtù la più indecente.”

2) “Passano gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti,

è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti.

La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,

fino a dire che un nano è una carogna di sicuro

perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.”

3) “Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore,

che preparai gli esami, diventai procuratore.

Per imboccar la strada che dalle panche d’una cattedrale,

porta alla sacrestia

quindi alla cattedra d’un tribunale,

Giudice finalmente: arbitro in terra del bene e del male.”

4) “E allora la mia statura non dispensò più buon umore

A chi alla sbarra in piedi mi diceva “vostro onore”,

e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi nell’ora dell’addio,

non conoscendo affatto la statura di Dio.”


Originariamente il 45 giri aveva questo nome: “Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) /Un giudice”. Questo nome non è a caso: De André infatti, nel comporre “Un giudice”, riprende la poesia “Il giudice Selah Lively” dell’antologia Spoon River di Edgar Lee Masters (figura letteraria di riferimento per la composizione dell’intero album).

Brevemente, nella poesia di riferimento Masters fa raccontare da Lively, il cd “scemo del villaggio” oramai morto, il cammino da egli svolto per diventare sempre più alto all’interno della società: di giorno lavora come garzone per un droghiere e di notte studia legge fino a diventare, in seguito, procuratore e quindi giudice. Egli è tormentato dalle prese in giro rivoltegli da tutta la vita a causa della sua bassa statura (157 centimetri) per cui, non potendo essere fisicamente alto guadagna, seppur a fatica, una statura sociale di tutto rispetto che gli conferisce, a un certo punto, il potere di decidere circa le sorti di chi in passato lo aveva deriso. Alla fine del componimento egli ammette di aver preferito la condanna all’assoluzione spinto da una sete di giustizia di carattere personale invece che sociale.


Fabrizio De André prende spunto da questa poesia per narrare le vicende di ‘un nano’ che diventa giudice seguendo lo stesso modus operandi di Selah Lively. Il nano può essere annoverato, insieme allo scemo del villaggio, nella categoria degli emarginati, che vengono osservati dalla gente e derisi da lontano, come notiamo chiaramente nella prima strofa “ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente…/..fra tutte le virtù la più indecente”; ebbene, queste angherie protratte nel tempo nutrono il suo rancore che riesce, a lungo andare, a trasformarlo in ciò che inizialmente non è.

Il ruolo che gioca il rancore nella realizzazione personale del nano, viene messo ben in luce da una figura retorica di significato presente all’inizio della terza strofa “Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore”: si tratta di una metafora, il rancore è stato il lume che ha guidato lo studio compiuto dal futuro giudice per potersi vendicare di chi lo ha deriso per una vita intera.

Il quarto e il quinto verso della seconda strofa costituiscono il cuore pulsante dell’intero componimento: “fino a dire che un nano è una carogna di sicuro/ perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”, qui Faber utilizza un linguaggio volutamente acceso affinché il messaggio possa arrivare davvero a tutti e, dopo esser stato interrogato per avere delle spiegazioni a riguardo da Fernanda Pivano, traduttrice dell’intera antologia di “Spoon River”, chiarisce che il personaggio diventa carogna perché la gente lo porta a diventare tale, è un parto della carogneria generale, emblema della cattiveria della gente. Si entra in un circolo vizioso in cui la cattiveria genera altra cattiveria che porta, in questo caso, il personaggio a diventare ciò che non è e quindi a volersi vendicare nei confronti di chi in passato gli ha fatto del male.

La terza strofa rappresenta un climax ascendente: il protagonista passa da una vita indegna di essere vissuta, quella da nano appunto, ad una vita degna di vivere in cui egli è temuto e rispettato, divenendo “giudice finalmente: arbitro in terra del bene e del male” (sesto verso della terza strofa). I passaggi seguiti sono i seguenti: dalla frustrazione al rancore, dal rancore alla vendetta.

È proprio la vendetta che guiderà le gesta del giudice d’ora in avanti, cristallizzata nell’antitesi presente al terzo verso della quarta strofa “e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio: è indubbio che condannare (a morte) qualcuno non sia una cosa bella, però se si tratta di qualcuno che ti rende la vita impossibile, come nel caso di coloro che per l’intera esistenza del giudice lo hanno preso in giro, può anche far piacere.

Ma sono gli ultimi due versi della quarta strofa a completare il quadro che De André ha inteso descrivere sin dall’inizio, arricchendo e aggiungendo un tocco personale al quadro precedentemente descritto da Edgar Lee Masters: “prima di genuflettermi nell’ora dell’addio/ non conoscendo affatto la statura di Dio”:


-Innanzitutto questi ultimi due versi rappresentano l’accusa, nemmeno poi tanto velata, di De André nei confronti di chi detiene il potere anche giudiziario. Secondo l’artista, infatti, chiunque arrivi ad una posizione elevata, è portato prima o poi ad abusarne, prevaricando su chi è gerarchicamente inferiore. Il potere è visto come mezzo di compensazione di una bassezza che è interiore.


-In tutto il brano non facciamo che notare la ricorrente contrapposizione fra chi sta in alto e chi sta in basso: dapprima è il nano ad essere guardato dall’alto in basso da chi lo prende in giro, in seguito è lui che, attraverso il suo riscatto sociale che avviene quando diventa giudice, guarda dall’alto i suoi detrattori “che alla sbarra o in piedi gli dicevano ‘vostro onore’”. Ma quella del nano-giudice è solo un’illusione effimera che svanisce nel momento in cui arriva l’ora della sua morte quando, nonostante il suo potere terreno, è costretto ad inginocchiarsi divenendo ancora più basso “non conoscendo affatto la statura di Dio”.


Concludo con una riflessione: potremmo non avere più De André uomo in carne ed ossa, un signore con i capelli lisci con in mano una chitarra e un’immancabile sigaretta che, con fare timido e con parole lapidarie, introduce le canzoni durante le sue esibizioni dal vivo, ma i suoi testi così imbevuti di poesia e attuali al tempo stesso costituiscono il patrimonio più grande che egli ci ha lasciato, testi che riescono a permeare tanto la quotidianità quanto il modo di pensare di qualsiasi connazionale che abbia un po' di sano amore per la musica italiana, e che ci fanno sentire, anche a ventidue anni di distanza, fortunati e onorati della sua esistenza.

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