Autore: #EmanueleMarchetti
La società odierna, caratterizzata dalla frenesia e dalla corsa all’ottimizzazione del tempo, ha un crescente bisogno di iperconnessioni e di collegamenti capillari in ogni sua parte. Ed anche la comunicazione ne sta risentendo. Si può tranquillamente affermare che essa è "la colonna portante di una qualsivoglia forma di organizzazione economica o sociale" e la tendenza alla frenesia e la necessità di ridurre tempi, costi e utilizzo di risorse, stanno portando ad una iperproduzione di notizie. Tanto che, all’inizio di quest’anno, è stata coniata la parola “infodemia”, proprio allo scopo di definire questa situazione, spiegata dal Treccani come “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.
E allora verrebbe da dire “ma cosa c’è di male nell’iperproduzione di notizie?”
Niente, se si riuscisse a valutare la fattualità di ognuna. Ma il punto è proprio questo: non è possibile. Il web fra i suoi lati negativi ha proprio quello di creare una giungla mediatica di informazioni in cui poi è veramente difficile districarsi. Articoli che citano altri articoli, che a loro volta ne citano altri e alla fine concludono il cerchio citandosi a vicenda, creando un anello di riferimenti senza alcuna validità e che si regge sul nulla. Vengono costruite queste catene autoreferenziali di notizie buttate li, le famose bufale, che si rafforzano agli occhi del lettore citando altre fonti che di affidabile e comprovato non hanno proprio un bel niente.
E qui casca l’asino. Navighiamo, letteralmente, in una palude virtuale di siti web dove spesso è impossibile risalire alla fonte della notizia e valutarne la veridicità. È quindi possibile ritrovarsi a leggere delle news ambigue, di solito addolcite da spiegazioni e collegamenti superficiali dati per scontati, senza dati a supporto, che ci donano la straordinaria sensazione di aver capito, finalmente, quale era quel tassello che ci mancava per comprendere la connessione fra il battito d’ali di una farfalla e un uragano dall’altra parte del mondo. A chi non è mai capitato di provare questa sensazione?
Ma perché dovremmo rinunciare a questa fantastica e rassicurante epifania, che ci fa credere di esser riusciti a trovare una spiegazione logica a qualcosa che prima non ci era chiaro?
Perché ci stanno, e anche “ci stiamo”, prendendo in giro. Queste notizie, basandosi su connessioni arbitrarie di argomenti ed eventi completamente separati tra loro, traggono la loro forza proprio dall’illusione di controllo che creano riducendoli ad una relazione di causalità pura. Il punto è che questa, di solito, è più rara di un quadrifoglio nel deserto.
In che senso ci stiamo prendendo in giro?
Le fake news, proprio per la loro caratteristica di creare collegamenti fra ciò che collegato non è, si innestano sulla necessità che abbiamo di ridurre il mondo e la vita ad una complessa, ma prevedibile, griglia di possibilità e relazioni (molto meglio se causa effetto, con la certezza dell’1+1=2). Però, considerando che il futuro è una tela di maglie tessute da persone distanti anni e miglialia di chilometri, questo è ovviamente impossibile. E tutto ciò che ci aiuta a spiegarci meglio la realtà, è per noi una piccola pillola blu contro l’ansia e l’incertezza date dal futuro e dal mondo, che per il 99% rimangono, ogni istante, sconosciuti.
Quindi come possiamo difenderci dalle fake news?
Non ci resta che vaccinarci e, in questo caso, i migliori vaccini sono la conoscenza e l’autoconsapevolezza. Quindi, di seguito, vi lasciamo alcuni dei bias e dei processi psicologici che giocano un ruolo importante nel farci credere alle fake news e che può tornare comodo conoscere per non farsi prendere per il naso dal guru di turno.
L’effetto di Dunning-Kruger
Questo fenomeno fu scoperto dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger nel 1999, attraverso una ricerca, che poi sarebbe diventata un classico della letteratura in psicologia sociale. L’esperimento fu condotto somministrando prove di diverso tipo e chiedendo ai soggetti che avevano prodotto le performance peggiori di provare a stimare il proprio punteggio. Senza scendere nei particolari dell’esperimento, la media dei punteggi di questo sottogruppo era stata di 12, mentre la media dei punteggi che si erano attribuiti era di ben 62!
Da questo risultato i due studiosi evidenziarono il suddetto bias, basato su una distorsione cognitiva che indurrebbe coloro che sono poco esperti in un campo a sopravvalutare le proprie conoscenze e chi è competente a sottovalutarle. Questa fallacia della metacognizione (ovvero la capacità di riflettere sul proprio pensiero e sulla propria coscienza) ha come conseguenza l’incapacità di riconoscere i propri limiti e i propri errori.
Ma cosa c’entra con le fake news il “NON sapere di non sapere”?
Il problema è che, come successivamente viene precisato da Dunning, nell’era del web 2.0 è necessario tenere ben presente che l’internet può essere un’arma a doppio taglio, nel senso che, nonostante sia una preziosissima risorsa per raccogliere informazioni e conoscenza, “il gioco sta nell’essere in grado di separare l’informazione valida da quella che non lo è, ed è un gioco difficile da vincere”. Infatti, spesso si ritiene di essere sufficientemente in grado di riconoscere una notizia falsa da una vera, ancora una volta sopravvalutandosi. Invece la realtà dei fatti, come precisa Dunning, è che “per capire chi è competente in un determinato settore, devo avere delle conoscenze in quella materia”. Quindi se mi ritengo più esperto di quello che sono, è molto probabile che una fake news ben congegnata e altisonante abbia più probabilità di passare ai miei occhi per una conclamata verità.
Il contributo della Behavioral Economics
Un’altra spiegazione alla diffusione delle fake news, ci viene fornita dalla Behavioral Economics, una disciplina a cavallo fra l’economia e la psicologia cognitiva, che ha come obiettivo quello di spiegare i processi di scelta economica con il metodo sperimentale. Uno fra i più famosi esponenti di questa materia è Daniel Khaneman, premio nobel per l’economia e autore del libro “Pensieri lenti e veloci”, nel quale presuppone l’esistenza di 2 sistemi adibiti al pensiero: il sistema 1 e il sistema 2. Il primo è un sistema molto automatico e veloce, che funziona bene nel caso siano da prendere decisioni rapide e intuitive, ma poco preciso. Il secondo invece è un sistema più analitico e riflessivo e serve a prendere decisioni più complesse e accurate. Di solito questi 2 lavorano in sincronia, passando le informazioni in entrata al vaglio del sistema 1 e poi, se necessaria un’ulteriore elaborazione, anche al sistema 2.
Sui social, importanti fucine delle fake news, è facile immaginare come il nostro sistema 2 possa essere messo in crisi dalla mole di informazioni da elaborare, considerando che con un semplice scroll è possibile vedere già 2/3 post. In questo caso il sistema riflessivo, cede il passo al sistema 1, venendo così bypassato e lasciando a briglia sciolta il processo di valutazione istintiva. In questo caso è facile farsi guidare dalle euristiche, ovvero dei giudizi rapidi ed efficienti che servono ad ottimizzare le risorse del cervello, che proprio per queste caratteristiche di superficialità, possono creare anche le basi per il consolidamento di un’opinione sbagliata, fondata su informazioni elaborate in maniera distorta.
Il bias di conferma
Questo particolare bias sottende la presenza di un fenomeno cognitivo umano che sembrerebbe far prediligere la ricerca e la selezione di informazioni che possono confermare o attribuire maggiore credibilità alle proprie convinzioni pregresse e smentire le opinioni contrarie. Tutto ciò può essere utile in un mondo che produce un enorme quantità di input che il cervello deve analizzare e selezionare, ma può anche mettere a rischio la validità delle nostre convinzioni. Inoltre, è risaputo che se una notizia ci piace è molto più facile darla per vera. E come già detto in precedenza, le fake news hanno la meravigliosa capacità di fornirci un’immensa soddisfazione creando collegamenti inesistenti o dandoci delle spiegazioni a fenomeni che spiegazioni non hanno. Un loro punto di forza da non sottovalutare, che, quando stimola questa sensazione, dovrebbe farci accendere un campanellino di allarme.
Filter Bubble e Echo Chamber
A tutto ciò si unisce l’effetto Filter Bubble, la tendenza dei social e dei motori di ricerca a riproporre argomenti e ricerche simili a quelle che abbiamo già effettuato. Infatti, i loro algoritmi sono impostati per suggerirci siti e notizie simili a quelle che abbiamo già letto, sulla base degli argomenti trattati nei siti già visitati.
Ma anche questo sembra proprio comodo, perché non dovremmo accettare i suggerimenti dei motori di ricerca, visto che ci vengono praticamente cuciti addosso sulla base di cookies e cronologia?
Semplicemente perché, come nelle situazioni sociali "live", il solo fatto di percepire un’opinione come quella della maggioranza o come la più condivisa, può farcela sembrare più appetibile e veritiera e può spingere a basarci su di essa. Ma in questo caso sappiamo che non è così. Lo sembra perché gli algoritmi dei network ci inducono a crederlo, prendendo per buona un’informazione che sembra generalmente condivisa, quando in realtà è solamente più visibile per effetto dei loro calcoli. E, ovviamente, non è detto che sia vera o realmente sostenuta dalla maggioranza degli esperti in materia.
In questo contesto si verifica il cosiddetto effetto Echo Chamber, ovvero una sorta di compartimentazione chiusa delle possibilità di esplorazione del web. Una situazione in cui ognuno è condizionato dalla sua filter bubble, condizionata dai propri interessi e, probabilmente, dalle proprie idee.
Per esempio, se mi informo su un determinato tipo di psicoterapia, diciamo la Cognitive Behavioral Therapy (CBT) e mi convinco che sia molto più efficace delle altre poiché ho letto diversi libri di autori che esprimono bene le loro idee a suo favore, sarà difficile poter contrastare quest’idea. In questo caso il piede di porco per smuovere questa convinzione, o almeno, per renderla più flessibile, sarebbe il raccogliere informazioni sugli altri tipi di scuole di pensiero presenti nel ventaglio della psicoterapia. Ma se la mia echo chamber, impostata su idee e argomenti relativi alla CBT non mi permette di entrare in contatto con altre idee contrastanti o negative riguardo ad essa, ecco come io rimango fermamente convinto delle mie idee, inconsapevolmente condizionato dall’architetture delle ricerche social.
Poco male, verrebbe da dire, al massimo non avrò molte conoscenze sulle possibilità delle psicoterapie, ma questo era solo un esempio. Però pensate a come questo effetto possa applicarsi ai “grandi dibattiti” del complottismo, dal 5G ai terrapiattisti, passando per i classici come Scientology e gli Illuminati. Diventa subito evidente come è possibile cristallizzarsi nelle proprie idee, credendo che la tendenza che vediamo sia della maggioranza. Ma come già detto, purtroppo (o per fortuna), non è così.
Quindi è importante ribadire, infine, che le migliori armi contro l’ignoranza e soprattutto le fake news, suo emblema, sono la conoscenza e soprattutto la voglia di conoscere. Tenere a mente la presenza dei suddetti bias e coltivare l’abitudine di dedicare un minimo di tempo al fact checking, qualora una notizia ci sembri troppo eclatante, ambigua o soddisfacente, può giocare un enorme ruolo nell’evitarci di abboccare alle notizie farlocche che si trovano sul web.
Ah! E ricordiamoci sempre di controllare fonti e link da cui una notizia è condivisa!
E tu, quanto ti ritieni in grado di riconoscere una fake news?
Comments