Autore #MatteoAgostino
Nelle scorse settimane ha suscitato particolare clamore l’ordinanza della Presidente della Regione Calabria Jole Santelli che, a partire dal 30 aprile, ossia qualche giorno prima del fatidico inizio della fase 2, aveva deciso di aprire al pubblico bar e ristoranti, sempre rispettando la distanza di sicurezza, ca va sans dire. Si è aperto così uno scontro istituzionale con il Governo, scontro poi finito davanti al Tar Calabria che aveva dato ragione al governo nazionale riconoscendo come, per il principio di sussidiarietà fissato dall’art. 118 comma 1 della Costituzione, l’individuazione delle misure precauzionali deve essere operata al livello amministrativo unitario, trattandosi infatti di un’emergenza sanitaria a carattere internazionale.
Ma se volessimo allargare il nostro orizzonte e andare a ritroso nelle settimane della fase 1, non potremmo non notare come siano divenute delle vere e proprie scene cult le conferenze stampa, riprese anche da quotidiani internazionali, del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, arrivando poi anche alla polemica dura tra il Governo centrale e il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana proprio nei giorni in cui la pandemia mostrava il suo lato più feroce.
Questi sono i casi più noti, anche per il clamore massmediatico che hanno suscitato, ma tanto basta per richiamare la babele di dichiarazioni, più o meno istituzionali, cui siamo stati sottoposti nelle ultime settimane, con confini regionali che a scopo propagandistico venivano chiusi e riaperti nell’arco di 24 ore, ordinanze che affermavano tutto e il contrario di tutto e sindaci e governatori che fino a pochi giorni prima erano integerrimi servitori delle Istituzioni e che nel giro di qualche minuto si sono trasformati in sceriffi.
Ebbene, possiamo senza alcuna ombra di dubbio affermare che il COVID-19, oltre ad aver messo in evidenza le criticità del Sistema Sanitario Nazionale, ha mostrato anche i limiti di un regionalismo ridisegnato dalle riforme del Titolo V del 1999-2001, profondamente diverso da quello delineato in Costituzione.
IL SISTEMA REGIONALE NELLA COSTITUZIONE DEL 1948.
È bene partire dal presupposto che le Regioni, per quanto previste nella Parte II Titolo V della Costituzione Repubblicana, non entrarono in funzione prima del 1970, quando ci furono le prime elezioni dei Consigli Regionali e i primi statuti iniziarono ad essere approvati. Il ritardo nell’attuazione del sistema, oltre ad essere determinato da una mancanza di volontà politica, con la DC preoccupata del fatto che a livello regionale si potessero creare delle maggioranze diverse da quelle parlamentari che sostenevano il governo, era dovuto anche ad una profonda incertezza data dal fatto che le Regioni costituivano comunque degli enti di nuova creazione che andavano ad unirsi agli enti locali tradizionali nell’articolazione della Repubblica, come riconosciuto dall’art. 114 della Costituzione.
I poteri spettanti alle Regioni erano molto limitati: queste godevano di potestà legislativa concorrente sulle materie previste in Costituzione e legiferavano nell’ambito di leggi cornice predisposte a livello nazionale. Le materie oggetto di legislazione concorrente vennero interpretate in maniera particolarmente restrittiva e in un secondo momento furono effettuati dei ritagli di materie a favore dello Stato in presenza di un superiore interesse nazionale. Non solo, ma nelle materie di competenza regionale si venne in seguito a riconoscere la possibilità, per lo Stato, di non emanare solo delle norme di carattere generale e di principio, ma di legiferare anche sulle norme di dettaglio.
LA RIFORMA DEL 1999-2001
Sulla base di un’esigenza allora più, si arriva ad un rafforzamento del sistema regionale con le tre leggi di riforma, ossia le leggi costituzionali 1/1999, 2/2001 e 3/2001, che portarono ad una ridefinizione dei rapporti tra lo Stato e le Regioni. Tale modifica, sottoposta a referendum, venne approvata con il voto favorevole del 64% del corpo elettorale.
Si interveniva, tra l’altro, anche sull’art. 117 della Costituzione che ora conferisce una potestà esclusiva dello Stato in materia di rapporti con le organizzazioni internazionali, con l’Unione Europea, con gli altri stati, in materia di immigrazione e libertà religiosa, difesa, moneta, sistema tributario, ordine pubblico e sicurezza, giurisdizione e giudizio civile, penale e amministrativo.
La reale novità sta nel ribaltamento del sistema precedente, considerato che la competenza dello Stato si esercita sulle materie espressamente elencate nel dettato costituzionale, mentre, al contrario, le Regioni possono legiferare sulle materie di competenza concorrente e godono, inoltre, di una competenza residuale su tutte le materie che non spettano né allo Stato, né costituiscono materie di carattere concorrente.
Oggetto di legislazione concorrente sono materie tutt’altro che secondarie, che sarebbe necessario disciplinare a livello unitario. Pensiamo soprattutto alle materie che impattano sul nostro welfare state, sul nostro “stato sociale”. In primis la tutela della salute mediante il Servizio Sanitario Nazionale, istituito con la legge 833/1978. Esso è infatti oggi oggetto di un’organizzazione che vede in primis lo Stato protagonista nel fissare dei livelli essenziali di assistenza, delle regole minime uniformi, unitamente alla definizione delle funzioni di programmazione, arrivando alla redazione di un piano sanitario nazionale alla cui formazione concorrono le regioni, cui spetta l’articolazione del territorio regionale in unità sanitarie locali poste sotto il controllo e la vigilanza proprio delle regioni medesime. Le ASL erogano le prestazioni sanitarie per come vengono fissate nei livelli essenziali di assistenza, insieme alle strutture sanitarie private che concorrono al funzionamento del sistema sanitario sulla base del sistema delle tre A, ossia autorizzazione, accreditamento e accordo contrattuale con la Regione.
PROSPETTIVE DI RIFORMA FUTURA.
Sic stantibus rebus, quali sono gli ultimi sviluppi?
Anzitutto, a seguito dei due referendum in Lombardia e Veneto dell’ottobre 2017 e della richiesta avanzata dall’Emilia-Romagna ha trovato per la prima volta applicazione l’art. 116 comma 3 della Costituzione. Questo prevede ulteriori forme di autonomia previa intesa tra Stato e Regione sulla base di una legge che deve essere approvata a maggioranza assoluta e che il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Boccia, ha già presentato. Il rischio abbastanza evidente è che il divario tra nord e sud del Paese, già cresciuto in seguito alle misure sul federalismo fiscale, possa accentuarsi ulteriormente arrivando a compromettere l’unità nazionale. De facto, nonostante la legge sull’autonomia differenziata non sia stata infatti ancora approvata, sarebbe già allo stato attuale impensabile mettere a confronto un sistema sanitario del Sud Italia con uno del Nord, per non parlare, inoltre, del sistema dei trasporti e delle infrastrutture.
Quali potrebbero essere, allora, le evoluzioni future del regionalismo italiano?
Seguendo il dibattito al Senato della Repubblica e alla Camera dei Deputati in seguito all’informativa del Presidente del Consiglio dei Ministri dello scorso 30 aprile, da più parti è stata avanzata l’idea di una modifica del Titolo V della Parte II della nostra Costituzione, con un ritorno quindi ad un sistema maggiormente centralizzato soprattutto per quanto riguarda il diritto costituzionalmente riconosciuto alla salute.
Altra soluzione possibile, sostenuta anche da Franco Bassanini (qui l’intervista), già ministro per la Funzione pubblica e autore delle leggi di riforma della pubblica amministrazione negli anni novanta, potrebbe essere quella di inserire una clausola di supremazia che permetta allo Stato, in presenza di determinate situazioni in cui la tutela dell’interesse nazionale sia particolarmente sentita, di derogare al riparto delle competenze per come sancito in Costituzione, come avviene, seppur con le dovute differenze, nell’ordinamento tedesco e nell’ordinamento statunitense. La strada è lunga ed è probabilmente ancora prematuro, dati i tempi della politica italiana, capire se ci sarà la volontà politica di mettere in atto quelli che per ora sono solo dei semplici auspici.
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