La dittatura passa (anche) attraverso i social

Dal 15 agosto i talebani sono al potere in Afghanistan, segnando un throwback di 25 anni, quando nel 1996 sotto la guida del Mullah Omar avevano proclamato la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, riuscendo ad imporsi sulle varie fazioni di mujaheddin – letteralmente i “combattenti impegnati nella jihad - che si erano armati nel Paese per combattere l’invasione sovietica degli anni ‘80.
I talebani applicarono fin da subito la loro visione radicale di un islam –sunnita- che enfatizza l’austerità e l’integralismo: la proibizione di film, radio e televisione si affiancò alle punizioni pubbliche e le violenze sommarie per chi violava la sharia (legge islamica). Gli uomini avevano l’obbligo di farsi crescere la barba, mentre per la questione femminile si apre un capitolo a parte. Oltre all’imposizione del burqa, le donne non potevano studiare, lavorare, guidare alcun tipo di mezzo, o uscire di casa a meno che accompagnate da un uomo della famiglia.
L’Emirato venne riconosciuto a livello internazionale solo da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che ne furono i principali finanziatori, insieme ad un certo Osama bin Laden, saudita di nascita, spostatosi in Afghanistan proprio per i forti legami con il movimento talebano. Da lì ha potuto organizzare e condurre gli attentati terroristici del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, nonché l’attentato alle Twin Towers nel 2001.
È proprio a seguito dell’11 settembre che inizia l’impegno degli Stati Uniti in Afghanistan, con il duplice obiettivo di stanare il capo di al-Qaida e deporre i talebani per instaurare delle istituzioni democratiche. Mentre si dovrà aspettare fino al 2011 perché venga portata a termine l’operazione Geronimo ai danni di Bin Laden, i talebani collassano rapidamente e si ritirano fra le montagne del Pakistan, lasciando spazio alla creazione di una repubblica, sostenuta in tutto e per tutto dagli USA e dalla NATO.
Dopo 20 anni e 4 presidenti, Biden ha deciso di dar seguito all’accordo firmato dal predecessore Trump e ritirare le truppe stanziate in Afghanistan. A niente sono servite le esortazioni dei leader europei durante il G7 dello scorso martedì per prolungare la presenza delle milizie alleate e mettere in salvo quanti più civili possibile. Mentre si discute sulla possibilità di aprire un dialogo con i talebani, oppure auspicare la linea dura delle sanzioni, agli afghani è stato vietato di lasciare il Paese. Quanti cercano di raggiungere l’aeroporto mettono a rischio la propria incolumità, ma sono disposti a farlo pur di sfuggire ad un destino peggiore. Una cosa è certa: tutte le operazioni degli alleati –dalle evacuazioni di cittadini, alla distruzione di documenti, veicoli e armamenti utilissimi per i talebani- dovranno essere concluse entro il 31 agosto, per scongiurare le minacce di “conseguenze” preannunciate dai talebani.
Eppure nella prima conferenza stampa rilasciata dal portavoce del gruppo, i talebani hanno prospettato ai media un “addolcimento” delle proprie posizioni, promettendo una amnistia generale per coloro che avevano collaborato a qualsiasi titolo con gli occidentali o il precedente governo afghano, che le donne avrebbero potuto continuare a ricevere un’istruzione e lavorare –nei limiti della sharia-, così come i media privati sarebbero stati “liberi” di operare in conformità con i valori islamici.
Sta di fatto che da quando i talebani hanno iniziato la loro avanzata, riconquistando territorio con un ottimo esempio di guerra-lampo, sempre più afghani stanno tentando di lasciare il Paese con la paura di essere arrestati o uccisi per aver appoggiato gli occidentali.

Si intrecciano le storie di tanti, troppi civili che tentano di scavalcare il muro di soldati talebani che bloccano l’unica strada per raggiungere l’aeroporto, per imbarcarsi in qualche modo a bordo di un aereo che li porti altrove, che li porti lontano.
C’è Fatima, portata in salvo in Italia, ventiduenne di origine hazara (una minoranza sciita) e unica guida turistica donna in Afghanistan, che si definisce «tutto ciò che i talebani odiano». Le dottoresse afghane che lavoravano nel Centro per la diagnosi del tumore al seno di Herat sono state evacuate, interrompendo il servizio per le numerosissime donne che si affidavano alle loro cure. Anche Mohammad è riuscito a fuggire, ma teme per la sorte di sua moglie e dei suoi figli. I talebani lo stanno cercando e hanno già ucciso parte della sua famiglia perché pensavano che lo nascondessero.
Chi non riesce a salire sul maledetto aereo deve invece fare i conti con una realtà che è ben diversa da quella prospettata in conferenza stampa. A Shabnam Khan Dawran, anchor woman della radio televisione afghana, è stato impedito di entrare in ufficio. Wahid Nazhand, campione di MMA, è sotto continua minaccia perché il suo sport non è consentito, ed è costretto ad allenarsi in segreto. Shukria Barakzai, giornalista, politica e attivista, ha cercato di scappare ma è stata riconosciuta e assalita dai talebani. Adesso è costretta a nascondersi. Non è la prima volta che tentano di ucciderla, ma fino a 15 giorni fa erano militanti, adesso sono lo stato.
In questa situazione di estremo isolamento, in cui il personale diplomatico, i giornalisti e le ONG sono stati evacuati, solo i video e messaggi diffusi attraverso internet ci permettono di rimanere in contatto con quanto succede in Afghanistan. Sì perché se vent’anni fa non esisteva praticamente la rete internet, oggi la maggioranza degli afghani usa regolarmente i social media. Ma non sono i soli. I talebani si sono evoluti molto da quando recapitavano una videocassetta all’emittente televisivo di turno e fanno un uso sempre maggiore dei canali social, per comunicare con i seguaci, per adescare adepti e come strumento per il controllo della popolazione. È per questo che in molti stanno eliminando il proprio profilo social, o nascondendo foto che possano etichettarli come sospetti, così come ha esortato a fare Khalida Popal, ex capitana della nazionale di calcio femminile che da tempo ha lasciato il Paese per via delle continue intimidazioni.
Al fine di limitare l’azione dei talebani, anche i colossi della rete si sono mobilitati per garantire la sicurezza dei propri utenti. Mark Zuckerberg ha deciso di allinearsi all’orientamento della comunità internazionale mettendo al bando sulle sue piattaforme qualsiasi contenuto che possa esaltare o supportare i talebani, rimuovendo account sospetti e creando un apposito team di esperti per individuare potenziali minacce. Ha inoltre introdotto la possibilità di bloccare gli account in Afghanistan dalla visione di coloro con cui non si è stretto amicizia, che non potranno visualizzare post, foto, né tantomeno l’elenco degli amici. Si potrà anche decidere se mostrare i propri contenuti a tutti, o soltanto ad utenti selezionati della propria cerchia di amicizie.
La questione si fa più spinosa nel caso di Twitter, YouTube e Tik Tok. Le prime due affermano che continueranno a seguire le proprie policy contro contenuti che glorificano la violenza, la pubblicità fuorviante e la manipolazione, ovvero quelle policy che si applicano indistintamente a tutti gli users. Questo perché in USA i talebani non fanno parte della lista delle organizzazioni terroristiche, in cui ad esempio è inserito l’ISIS, lista a cui in passato si erano rifatte le società di social network per l’attuazione di politiche di rimozione. Washington li considera come Specially Designated Global Terrorists, una classificazione che però implica soltanto il congelamento dei beni detenuti in America e vieta agli americani di cooperare con loro. La compagnia cinese procede similmente rimuovendo contenuti violenti se non ricondotti a una valutazione di tipo giornalistico.
Ad onore del vero teniamo presente che l’account Twitter di Donald Trump è ancora –giustamente- oscurato, mentre il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid è più che attivo e libero di twittare ai suoi quasi 300mila followers. Questo perché il gruppo islamista conosce bene le regole del gioco. Sanno fino a dove possono spingersi e rispettano i confini entro cui sono settate le politiche sui contenuti nei social. È poi complicato per le aziende –che ricordiamo essere enti indipendenti- decidere come posizionarsi rispetto a un movimento che oscilla tra la catalogazione di terrorista negli Stati Uniti e il riconoscimento diplomatico da parti di stati come Cina, Russia, Pakistan e Iran.
Nel mondo attuale, in cui le informazioni sono facilmente plasmabili e raggiungono un bacino di utenze potenzialmente infinito, è facile ottenere dissensi quanto facile è accaparrarsi consensi. Determinati messaggi certo attecchiscono meno tra la classe media occidentale, ma possono rivelarsi attraenti per persone che vivono nella miseria, per coloro che vivono ai margini della società, ma anche per chi, pur vivendo in una situazione agiata in un paese libero, non riesce ad integrarsi con i modelli sociali proposti e conduce un’esistenza sentendosi “diverso”. Se i moderni sistemi di comunicazione svolgono un ruolo determinante nella propaganda fondamentalista, una minore colpa non è da imputare alla politica occidentale che strumentalizza l’odio e la diversità ponendoli a fondamento della propria ideologia.
Proprio i social network che erano nati per migliorare la connessione tra le persone, permettendo la libera circolazione di pensieri e immagini e che effettivamente nella storia recente del Medio Oriente sono stati fondamentali per la mobilitazione della popolazione avverso governi oppressori, sono oggi un’arma a doppio taglio per ognuno di noi. Più informazioni rendiamo disponibili riguardo noi stessi, i nostri spostamenti, i nostri contatti, più diventiamo dei facili bersagli, alla mercé di chiunque voglia usare quei dati per raggiungere uno scopo ben prefissato.
Spoiler: e se i talebani iniziassero a postare, anziché dai profili privati, da quelli istituzionali dell’ex governo afghano? Questa pratica li invigorirebbe e renderebbe più legittime le loro parole soltanto perché provenienti da un account istituzionale?