Il dramma della Tratta atlantica
Si svegliò di soprassalto. Meccanicamente, i suoi occhi, cerchiati di lividi, riconobbero i soliti logori catenacci. Sentì l’appiccicoso sudore dei tropici che bruciava sopra le ferite. Nella stanza riecheggiavano i pianti di centinaia di uomini; i loro lamenti si mescolavano in un angoscioso concerto di voci che rimbombava lungo tutta la nave.
Anche quella mattina le tempie gli friggevano, fino a scoppiare. Aveva sognato di nuovo Malaika. Il suo sorriso, le sue braccia, i suoi capelli leggeri. Pianse quando si accorse che non riusciva a ricordarsi altro. Istintivamente si chiese da quanti giorni fosse iniziata quell’agonia. Domanda inutile; ormai per lui giorno e notte erano unicamente un’opinione. Gli sembrava di essere sempre vissuto in quel bugigattolo maleodorante e buio, in compagnia di altre centinaia di esseri umani stipati come bestie, sopra le acque di un mare che non finiva mai. A stento si ricordava ancora il suo nome. Forse si chiamava Kuma.
Da giorni l’uomo che era incatenato assieme a lui aveva smesso di parlare. Probabilmente era morto. Non se ne sarebbe stupito: rimanere vivi in quelle condizioni era un’autentica impresa. Molti crepavano per la fame, altri per le torture che i carcerieri si divertivano ad infliggere sulle loro carni, altri ancora (la maggior parte) erano falcidiati dalle malattie. Scorbuto, dissenteria e febbri scorrevano tra il lerciume e l’odore di piscio. Chi riusciva a rimanere in vita era costretto a sottoporsi a continue umiliazioni.
Kuma aveva sentito dire che, di tanto in tanto, i carcerieri obbligavano gli schiavi a salire sul ponte della nave, costringendoli ad esibirsi in danze e piroette. Il loro fisico, maciullato dalle frustate e dalla denutrizione, doveva rimanere tonico e smagliante; un corpo flaccido ed esangue avrebbe irrimediabilmente fatto calare a picco il prezzo di quella merce umana. Gli avidi latifondisti del Nuovo Mondo, durante la contrattazione, avrebbero scovato qualsiasi difetto pur di giocare al ribasso sul valore dei loro futuri schiavi. Ben sapendolo, prima dello sbarco, i mercanti di esseri umani toglievano i ceppi ai deportati, sanando le loro ferite e radendoli con cura. I più certosini arrivavano persino a strappare o a tingere i capelli bianchi dei più anziani per donare loro un aspetto giovane e virile.
Questa era la Tratta atlantica. Un itinerario della morte che partiva dal Vecchio Continente, toccava il golfo di Guinea e quindi raggiungeva le sponde del Nuovo Mondo.
Una volta giunti sulle coste africane, i mercanti europei barattavano le loro merci con gli schiavi catturati dai negrieri all’interno del continente; dunque, con la stiva gonfia di uomini, facevano rotta verso le Americhe. Durante il viaggio, la vita dei deportati si esauriva in uno spazio largo appena 50 centimetri e alto meno di un metro e mezzo. Ma questa non era che l’anticamera del loro inferno.
Coloro che sopravvivevano alla traversata oceanica avrebbero avuto un unico destino: spolparsi i muscoli, fino all’ultimo dei loro giorni, nelle piantagioni dei ricchi possidenti americani. Al contrario, i mercanti europei se ne tornavano in patria dopo aver scambiato le vite dei loro passeggeri con cotone, tabacco, zucchero ed altre materie prime altamente richieste nel Vecchio Continente.
Tra la metà del XV secolo e la fine del XIX secolo, i mercanti di schiavi deportarono nel Nuovo Mondo circa 12 milioni di esseri umani, contribuendo a scrivere una delle pagine più vergognose (e meno lette) della storia.
Nella pancia della nave, immerso nel buio più lurido, Kuma non poteva misurare la tragedia storica a cui inconsapevolmente stava prendendo parte. L’unica cosa che sapeva era che qualcuno, ormai secoli fa, l’aveva rapito, fatto schiavo e venduto a uomini dalla strana carnagione bianca che l’avevano picchiato e caricato su una nave. Per un attimo decise di dimenticare tutto; le catene, le frustate, la puzza del sangue. Ebbe la forza di ripensare alle focacce di sua madre, al pane caldo, alle corse lungo il fiume, al sorriso di Malaika. Quindi, come per fermare quel ricordo, chiuse gli occhi. Per sempre.
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