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Modelli di lotta alla disinformazione



Una popolazione ben informata è alla base del corretto funzionamento della democrazia e questo funzionamento, tanto essenziale quanto fragile, è tra i pilastri da preservare in una società. Porre l’attenzione sul fenomeno della disinformazione serve a rendere più consapevole chi non comprende quanto sia sfumata, impercettibile e pericolosa una sua deriva.

Cerchiamo di analizzare quali potrebbero essere gli strumenti a disposizione per difenderci dai pericoli confrontando alcuni modelli di lotta a quella che chiamo “mala informazione” concludendo con la situazione in Italia e con una possibile soluzione.


Proveremo a capire quanto possa essere diversa la qualità delle informazioni circolanti a livello di trasparenza e di libertà di espressione, del senso critico dei cittadini nel valutarle e del diverso grado di consapevolezza a riguardo. Come è normale gli strumenti per diffondere informazione si sono adattati ai cambiamenti tecnologici per la sua trasmissione. Ma le persone hanno fatto altrettanto? Spesso accade che i più giovani siano maggiormente consapevoli del funzionamento dei vari social e sappiano percepire meglio quando una notizia è stata formulata al solo scopo di attirare l’attenzione e sfruttare l’effetto condivisione. I meno addetti ai lavori, invece, sanno distinguere un tweet o un post prodotto da una persona reale da uno prodotto da un bot? Di più: sanno cos’è un bot?


Un esempio virtuoso ci arriva dalla Finlandia, ben più conscia delle insidie legate alla disinformazione e più preparata di molti altri paesi nel gestire questo delicato meccanismo.

Posizionata prima nella particolare classifica che misura quella che potremmo chiamare “alfabetizzazione digitale” (l’Italia è 21esima sui 35 paesi presi in esame sul continente europeo), la Finlandia offre corsi di studio rivolti a giovani e a adulti incentrati su come ottenere una corretta comprensione del mondo che li circonda (come accaduto in occasione delle elezioni europee nel 2014, quando fu avviata una campagna di informazione a riguardo). La particolare

attenzione posta dal paese sulla questione può essere storicamente ricondotta alla vicinanza che la lega alla Russia e ai 1.340 km di confine che la separano da quest’ultima.


Il paese guidato da Putin ha smesso di rappresentare (solo) una minaccia militare sul nostro continente dopo quanto accaduto in Crimea: la Russia si è infatti resa protagonista di rilevanti casi di ingerenza politica, da un lato attraverso attacchi informatici rivolti ad importanti cariche di stato (da ultimo quello denunciato dalla Cancelliera tedesca Merkel riguardo ad un “tentativo oltraggioso di spionaggio” nei suoi confronti, oltre che di quelli dei membri del Bundestag, il parlamento tedesco) ma anche attraverso la creazione di decine di migliaia di finti account social allo scopo di influenzare l’opinione pubblica alimentando la spirale di diffidenza e ignoranza che avanza sempre di più tra le società europee.

A proposito della Russia, è noto come questa abbia una posizione diametralmente opposta rispetto alla Finlandia sulla libertà di informazione, avendo adottato una vera e propria morsa restrittiva alla circolazione delle notizie all’interno dei propri confini (basti citare lo strano caso dei tre medici che nel mese passato sono caduti “accidentalmente” da finestre dei propri ospedali, immediatamente dopo a denunce riguardo alla gestione dell’epidemia in corso).

Ciò ci dovrebbe far riflettere quando sentiamo politici italiani invidiare il modus operandi del leader russo.


Volendo rimanere all’interno dei nostri confini europei, l’Ungheria di Viktor Orbán è un altro esempio di modello di lotta contro le fake news. Per una migliore gestione dell’emergenza si è fatto insignire di pieni poteri, come del resto è accaduto in molti altri paesi dell’Unione Europea, hanno sottolineato molti nostri esponenti politici. Ciò che però lo contraddistingue come caso isolato è la totale mancanza di limiti, che siano temporali o di materia, non essendo stato definito fino a quando lo stato di emergenza durerà e su quali materie (e quali no) Orbán ha potere di agire.

Come riportato dal Cpj, il Comitato Protezione Giornalisti, molti stati hanno sfruttato (e continueranno a farlo) l’emergenza Coronavirus per imporre pesanti restrizioni alla libertà di informazione e sanzioni a chi tenterà di fornire notizie diverse da quelle approvate dal governo.

L’Ungheria, l’europeissima Ungheria, si dimostra pertanto avviata a diventare il primo caso di dittatura nel cuore del nostro continente, dopo i casi di soppressione dei diritti civili e umani che nulla avevano a che fare con l’emergenza sanitaria.


Quanto descritto non dovrebbe però condurre il lettore a credere che la gestione a priori di una sana e corretta divulgazione delle notizie sia cosa semplice. Dovrebbe o non dovrebbe esistere un organo di controllo che monitori la qualità e la correttezza dell’informazione che circola in un paese? Su quali parametri dovrebbe basarsi? È sicuramente essenziale garantire la libertà di

espressione di ciascuno ma come comportarsi quando questa libertà si scontra con il proprio diritto ad avere un’informazione di qualità?


Certo è facile orientarsi quando parliamo di Finlandia, Russia o Ungheria: posizionandosi agli antipodi della nostra concezione di libertà ci rende quasi automatico prendere posizione. Come comportarsi però quando questa libertà non è ancora solida, quando i limiti di ciò che è permesso e di ciò che non lo è non sono ancora ben definiti e la libertà di espressione di un individuo, sotto

forma di ignoranza nel migliore dei casi e di malafede nel peggiore, diventa pericolosa per la democrazia stessa? Questo passaggio si concretizza nel momento in cui si passa da un singolo individuo a un cospicuo gruppo di persone che basa le proprie credenze e (in un’ottica più pragmatica) i propri voti su disinformazione, inconsapevolezza e rancore verso ciò che non conosce.


Credo che il problema sia tutto qui: un individuo ha la libertà di dire ciò che vuole, ma può valere lo stesso per un insieme di individui che senza cognizione di causa mettono a repentaglio la giustizia e la civiltà di un paese?


A riguardo non credo che la soluzione possa essere ricondotta a qualche sorta di sanzione per chi favorisce la diffusione di “mala informazione”. Non credo nemmeno sia etico sanzionare l’ignoranza in quanto è spesso la causa prima del problema (oltre ad essere, il sistema punitivo, una misura estremamente superficiale e di breve periodo). Ritengo invece che si debba agire più nel

profondo e risolvere un problema complesso con un cambiamento di pari livello del sistema che ha portato l’Italia ad avere il 47% di analfabeti funzionali nella popolazione di fascia d’età 16 – 65 anni (che si traduce nell’escludere quella fascia di popolazione, gli over 65, che ha più difficoltà ad approcciarsi ai nuovi mezzi di informazione).


La soluzione che nel mio piccolo mi sento di proporre è quella di cambiare radicalmente il sistema di istruzione italiano in modo tale che sia più coerente con la realtà che ci circonda inserendo nei programmi scolastici (declinati ovviamente ai relativi livelli di istruzione) insegnamenti di economia, educazione civica ed educazione sessuale. Il programma dovrebbe sì rivolgersi in primis ai più giovani, per renderli più consapevoli del mondo che ancora non conoscono ma anche aprirsi agli adulti, per far loro capire che ciò che li circonda non smette mai di cambiare.




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