Non è tutto oro quel che luccica. Molto spesso accade di trovarsi di fronte ad un’opera esposta in uno spazio pubblico e di apprezzarla passivamente (soprattutto se il suo autore è particolarmente famoso) dando per scontato che sia valida.
Bisogna però imparare a riconoscere i buoni interventi di arte ambientale da quelli fallimentari in modo da riuscire ad approcciarsi più consapevolmente a ciò che si ha di fronte; non si tratta di giudicare la singola opera in sé ma di saper capire se quella riesce a instaurare un dialogo attivo e costruttivo con l’ambiente in cui è inserita.
Possiamo chiederci, ad esempio, se la sua presenza determina la qualificazione dello spazio in cui si trova in un luogo di aggregazione o socializzazione, se quell’opera ci racconta qualcosa di importante del posto che la ospita o se svolge una funzione di simbolo identitario, animando lo spirito comunitario degli abitanti.
La consapevolezza di tutto questo è importante perché ci rende cittadini attivi, partecipi della vita delle nostre realtà, dotati di senso critico, in grado, insomma, di giudicare e, perché no?, indirizzare le giuste operazioni di arte ambientale.
Infine, va detto, tutto questo è anche necessario affinché di fronte ad un’opera catapultata all’improvviso in una piazza, nessuno si chieda più con astio e disprezzo che cosa sia “quella roba lì”; affinché, piuttosto, ognuno riesca a farla propria e la riconosca come parte della propria identità di cittadino.
Comunque, per facilitarvi il compito, ecco due esempi utili:
Il Giardino del Gigante di Marco Pellizzola
Tra il 2000 e il 2006 sorge a Cento, in provincia di Ferrara, un parco d’arte ambientale ispirato dalla fiaba scritta dalla figlia dello stesso artista, Marco Pellizzola. Grazie alla sua forza creativa la storia diventa immagine e molto di più: un laboratorio a cielo aperto, uno spazio del vivere.
Questo luogo nasce in un’area precedentemente industriale e poi riconvertita per ospitare grandi centri commerciali; qui, in una zona verde lottizzata, dovevano inizialmente nascere delle abitazioni finché il Comitato di quartiere, diviso tra bisogni dagli abitanti da una parte e il dibattito comunale dall’altra, decide di destinarla ad uno spazio di socializzazione.
Questa esperienza nasce e agisce tutt’oggi secondo pratiche effettivamente ambientali.
Oggi l’intervento di Pellizzola stimola, infatti, la fantasia dei bambini che, sollecitati dalle molteplici sculture che animano il parco, immaginano
il racconto di figure che vi si intesse e ingrandiscono con la fantasia quei personaggi. I piccoli abitanti di questo spazio, inoltre, sono costantemente stimolati a rapportarsi all’arte contemporanea grazie alla presenza di immagini che richiamano le opere di Matisse o Monet, Moore o Mirò; lo sguardo del bambino è, insomma, continuamente intercettato e disposto già ad un rapporto familiare con i linguaggi artistici.
Inoltre, gli stessi processi costitutivi del parco avviano un percorso di relazione prettamente ambientale grazie all’utilizzo di materiali destinati alla dismissione e rivolti adesso ad una nuova funzione (fatto che, tra l’altro, coinvolge anche la dimensione economica dal momento in cui, sottraendo gli scarti alla dismissione e non essendoci bisogno di acquistare materiali per le opere, si dimezzano anche i costi).
Pellizzola ottiene gli scarti della produzione di ceramica del territorio per realizzare, ad esempio, il corpo di una grande lucertola oppure delle gigantesche foglie. Infine, questa esperienza diventa ben presto anche un’occasione collettiva di formazione quando vengono coinvolti studenti in Erasmus dall’Università di Torino e dall’Accademia di Brera, utilizzando gli stage da queste previsti, e quando viene indetto un bando per posatori di mosaico mediterraneo.
Un’esperienza, insomma, che ha in sé una dinamica socializzante già in fase di cantiere oltre che a risultato concluso.
Il Giardino del Gigante è perciò uno spazio animato da sculture abitabili e fruibili come giochi o elementi di sosta e aggregazione. Opere coloratissime perché realizzate da migliaia di frammenti di mosaico ceramico: una lucertola, una foglia, un merlo, stelle cadenti, pesciolini, fiori e ninfee, segni, simboli, presenze fantastiche, tutti evocano la favola di un invisibile gigante che ha fatto della natura il suo castello, lasciandola in eredità a chi ne sa gioire.
Favola e arte si uniscono a Cento nella realizzazione di un parco che per il ruolo socializzante e aggregativo che oggi gioca e per le dinamiche che ha messo in moto in fase di cantiere, è definibile a tutti gli effetti di arte ambientale.
L’Hortus Conclusus di Mimmo Paladino
Diverso da questo tipo di progettualità è invece quel “luogo per la riflessione”, come indica il suo titolo stesso, inaugurato a Benevento nel 1992.
Questo giardino è animato da diverse e suggestive opere di Mimmo Paladino; esse si articolano in questo spazio chiuso e intimo giocando sui continui rimandi al mito e alla storia di Benevento e del territorio campano: l’utilizzo del rosso evoca l’immagine del Vesuvio, la presenza della maschera rinvia a Pulcinella e la costante idea del culto dei morti si allaccia ad una tradizione tipica napoletana, mentre, ancora, il Cavallo si lega, insieme agli Elmi disseminati, alla storia sannitica del posto.
Se, da una parte, queste opere si presentano ricche di legami con il territorio di Benevento e arricchiscono un luogo esteticamente bello e affascinante, solo apparentemente però svolgono una funzione ambientale: queste infatti, già precedentemente realizzate dall’artista, vengono qui semplicemente collocate (e non ambientate) cosicché ciò che ne risulta è piuttosto un abbecedario dell’immaginazione dell’autore.
Il ricorrere di segni, simboli e immagini che rendono immediatamente riconoscibile la sua arte (come il cavallo, ad esempio), perché ormai già appartenenti al repertorio dell’artista, nega alle opere stesse la possibilità di stabilire una relazione dialettica con il luogo che le ospita, risultando semmai piuttosto autoreferenziali.
Non si tratta qui di dare un giudizio di valore sulla qualità delle singole opere,
certamente notevoli e senza dubbio apprezzabili, quanto piuttosto di valutare l’effettivo ruolo che esse svolgono in un tale contesto pubblico, un contesto che si vorrebbe (o che si dovrebbe volere) sollecitante dinamiche costruttive, socializzanti e aggregative: in questo caso l’autoreferenzialità e l’autocitazionismo rendono impossibile l’instaurarsi di un dialogo tra il luogo, l’opera e l’osservatore.
Il risultato? Anziché generare uno spazio vissuto, ovvero uno spazio di e per tutti, ciò che ne scaturisce è semplicemente l’Hortus Conclusus di Paladino, un luogo cioè che appartiene soltanto al suo autore, in grado di rispondere con efficacia alle necessità del Comune di avere in città un unicum realizzato da un artista famoso e capace per questo di attirare un nutrito pubblico.
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