Pochi giorni fa, nella prima settimana di questa nuova lacerante guerra nel cuore dell’Europa, è stata proiettata sul muro dell’ambasciata americana a Mosca la copertina del Time del 24 marzo 1999, raffigurante un’esplosione che giustifica il bombardamento della Jugoslavia. La copertina recitava: ”Bringing the Serbs to hell. A massive bombing attack opens the door to peace”.
Un gesto insignificante rispetto alla brutalità della guerra scatenata da Putin e che nulla giustifica, ma un gesto che ci deve imporre un quesito: non è che prima dei russi, eravamo noi i cattivi? Dove era la solidarietà e le marce per la pace quando a sotto una pioggia di fuoco c’era Belgrado e non Kiev? E soprattutto, perché tutti dimenticano che la guerra ha già bussato 20 anni fa alle porte d’Europa? Parliamo dell’operazione Allied Force e dei suoi “danni collaterali”.
Partiamo dal motivo di questo intervento: la crisi del Kosovo. Le origini della crisi in Kosovo risalgono alla revoca delle autonomie della regione ad opera della Serbia presieduta da Slobodan Milošević nel 1989. A seguito di questa revoca delle autonomie e di una ventata di nazionalismo serbo che minacciava la minoranza etnica albanese-kosovara, il leader del partito LDK (Lega Democratica del Kosovo), Ibrahim Rugova, promosse forme di resistenza non-violenta, richiedendo il ripristino dell'autonomia del Kosovo che era garantita nella Repubblica Federativa Jugoslava di Tito (all’epoca la Serbia era una delle 5 repubbliche della Federazione Jugoslava).Dal 1995 alla protesta non-violenta si aggiunse una attività di guerriglia, da parte del neonato UÇK, un movimento di guerriglia, che emerse allo scoperto nell'aprile 1996 con alcuni omicidi e con attentati (inclusa la distruzione di raccolti) contro cittadini d'etnia serba; l'UÇK, a differenza di Rugova, mirava all'indipendenza completa del Kosovo.
Fu solo due anni dopo che iniziò l’escalation della crisi, caratterizzata dall'intensificarsi delle attività dell'UÇK e da una occupazione militare progressiva del Kosovo da parte delle forze militari e paramilitari serbe. In questo momento la comunità internazionale iniziò a seguire la crisi, con l'interessamento di vari paesi europei e degli Stati Uniti, nonché con l'intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Inizialmente le Nazioni Unite decisero di mettere sotto embargo la federazione Jugoslava (nel 1998 ridotta alla sola Serbia e Montenegro) e emisero risoluzioni in cui condannavano l’uso della forza da ambo i lati. Nel frattempo, l’occupazione serba del Kosovo continuava e l’OCSE decise di mandare i suoi osservatori ai fini di verificare la presenza di violenze e le responsabilità delle parti. La guerra però, seppure a bassa intensità, continuava e il popolo albanese era sempre più colpito dalle rappresaglie dei serbi che combattevano contro l’UÇK. Finalmente, nel febbraio 1999 si svolse la "Conferenza internazionale di pace di Rambouillet", un ultimo tentativo di ricomporre la crisi. Gli accordi, stabiliti unilateralmente dalla America in accordo con le forze alleate, prevedevano: l’autonomia ma non l'indipendenza del Kosovo, con l’intenzione di indire un referendum dopo 3 anni, e l’intervento di una forza militare NATO di pace in Kosovo (con libertà di movimento in tutto il territorio Jugoslavo).
L’accordo, che inizialmente fu approvato dalla parte albanese, fu rigettato dalla delegazione serba, sostenendo che si trattava di un'autonomia che mascherava di fatto un processo di indipendenza, con condizioni umilianti per i serbi. In realtà il fallimento era ampiamente previsto e prevedibile perché avrebbe consentito alla NATO di disporre liberamente di un paese sovrano e fu bollato da Henry Kissinger come un terribile accordo e una mera scusa per iniziare i bombardamenti. A quel punto, la NATO decise l’operazione Allied Force.
L’operazione prese ufficialmente il via il 24 marzo 1999, quando Madeleine Albright segretario di stato americano e Javier Solana autorizzarono l’utilizzo della forza aerea NATO contro l’esercito Jugoslavo. Con questa decisione l’alleanza atlantica, nata con scopo difensivo, si impegnava per la prima volta nella sua storia in un’azione offensiva, attaccando uno Stato sovrano e violando in tal modo non solo la Charta dell’ONU, ma anche la propria costituzione. Per noi italiani, in quei giorni il presidente del consiglio Massimo D’Alema autorizzò l’utilizzo delle forze armate italiane in Jugoslavia. Era la prima vota dal dopoguerra in cui l’Italia si impegnava in una guerra offensiva.
L’operazione durò circa 3 mesi (fino al 10 giugno) e si sviluppò su due fasi:
L’attacco a tutte le forze militari serbe e alle loro infrastrutture
L’attacco a bersagli civili e militari nel tentativo di paralizzare il Paese obbligando il governo serbo a una resa e spingendo il popolo serbo a fare pressioni sul governo.
Questa seconda fase in particolare provocò drastici “danni collaterali”: la morte di 2500 civili Serbi e albanesi, di cui 89 bambini e l’utilizzo da parte NATO di bombe all’uranio impoverito che provocarono tumori e malattie sia ai soldati americani che al popolo serbo. Inoltre, l’inizio dei raid aerei provò un inasprirsi della guerra in Kosovo con l’inizio di una vera e propria pulizia etnica serba che portò all’esodo di più di 500 mila albanesi verso la macedonia e l’Albania.
Alla fine, come titolava il Times, i raid costrinse Milosevic a rimettersi al tavolo e ad accettare la pace con gli accordi di Kumanovo. Il Kosovo fu liberato e furono inviate truppe internazionali (questa volta russe e Nato per accontentare i serbi che vedevano nei russi un popolo slavo e amico) che garantirono la pace e una indipendenza fattuale dalla Serbia. Il presidente Milosevic rimase al potere un altro anno e poi venne sconfitto alle elezioni del 2000 e condannato per crimini contro l’umanità dal tribunale dell’Aja nel 2001.
Se volessimo trarre un bilancio di questa operazione potremmo usare la classica frase: ”buona l’intenzione, ottima l’idea ma pessima l’esecuzione”. L’intervento, infatti, oltre a provocare migliaia di innocenti vittime civili, ha portato a una frattura con gli altri membri del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Russia e Cina che si sono viste spettatori di una guerra per la pace senza essere statati neanche interpellati.
Finisco questo breve articolo, ponendo un quesito: vedendo quello che accadde oggi in Ucraina, se a fare la guerra ai serbi fossero stati i russi e non noi, come avremmo reagito? E in fondo, siamo tanto diversi noi e loro?
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