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Processo mediatico: patologia del diritto all'informazione?


Michele Misseri. Fonte: www.LettoQuotidiano.it

Quarto grado” o “Chi l’ha visto” oppure certe puntate speciali di “Pomeriggio 5” et similia spesso tentano di “analizzare”, anche con l’ausilio di “esperti”, alcuni fatti di cronaca nera che sfociano in processi talmente complessi da protrarsi per lungo tempo. Questi programmi possono esistere in virtù del diritto all’informazione che è strettamente collegato a quello di libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della nostra Costituzione. In questi assistiamo ad un fenomeno che può essere definito un secundum processo ovverosia il processo mediatico.


Questo presenta notevoli differenze rispetto al processo penale vero e proprio: in primis, banalmente, questo non si svolge nelle aule di un tribunale ma in un salotto televisivo; in secundis (di gran lunga più rilevante) ha una finalità diversa: il processo penale tende a ricercare la verità garantendo e tutelando i diritti di ciascuna parte processuale; il processo mediatico ha lo scopo di essere uno strumento utile alla collettività in quanto dovrebbe garantire al pubblico la conoscenza della notizia.

Ho usato il condizionale non a caso: molto spesso offrire il processo ‘in pasto’ ai mass media con la scusante dell’art.21, senza la mediazione del rituale giudiziario, porta come unico risultato la messa in scena di uno spettacolo dell’assurdo che non fa altro che indebolire sia giustizia che informazione. In questi salotti chiunque può dire la propria o formulare un giudizio, e questo accade molto spesso a discapito del presunto colpevole, e sottolineo presunto, in quanto non bisogna dimenticare che, ai sensi dell’art. 27 co.2 della Costituzione, l’imputato non è considerato colpevole sino all'esito del terzo grado di giudizio, vale a dire fino a sentenza di condanna definitiva emessa dalla Suprema Corte di Cassazione. In TV, sovente, l’imputato è considerato alla stregua del protagonista di un reality costantemente tenuto sotto controllo da telecamere che, spesse volte, rielaborano quella che è la realtà dei fatti a piacimento in favore dell’audience.


La domanda da porsi è la seguente: fino a che punto è possibile spingersi a favore della conoscenza della notizia?

Il cuore del problema sta nel fatto che, inevitabilmente, il processo mediatico è avulso da quei simboli, quei rituali, quelle regole che sono proprie del processo vero e proprio o, per meglio dire, è connotato da altri simboli, altri rituali, altre regole, che sono propri del linguaggio mediatico. Da questo a derivarne è una realtà spettacolarizzata, in cui l’unica verità perseguita è quella emotiva, diversa da quella storica e processuale, nella quale la legge diviene un tutt’uno con la morale e con l’etica, e il risultato è il formarsi di un convincimento collettivo così radicato che, se la sentenza non soddisfa le aspettative, porta ineluttabilmente alla considerazione che la decisione giudiziale sia ingiusta.

Quando ci troviamo di fronte casi che destano particolare scalpore e, per tale ragione, vengono vivisezionati e analizzati in TV, per forza di cose si forma un doppio binario: in uno troviamo il processo tradizionale ritualizzato in virtù delle regole procedurali, nell’altro abbiamo il processo mediatico dominato dai comuni sentimenti che portano a rapide conclusioni. Si ha così un ovvio condizionamento dell’opinione pubblica che mette in difficoltà e, in certi casi, rischia di rendere vano lo sforzo degli addetti ai lavori che cercano la verità.


Per fare un esempio pratico basti pensare al delitto di Avetrana: si tratta di un caso di omicidio commesso il 26 agosto 2010 per l’appunto ad Avetrana, piccolo paese in provincia di Taranto, in cui a farne le spese è stata la giovane Sarah Scazzi, all’epoca quindicenne. La vicenda ha avuto una grandissima risonanza mediatica in Italia, culminata nell’annuncio del ritrovamento del cadavere della giovane in diretta nel programma “Chi l’ha visto?” in cui era ospite, in collegamento, la madre di Sarah.

La Cassazione solo il 21 febbraio 2017 è riuscita finalmente a ricostruire un quadro completo della vicenda, delineare in maniera chiara le figure degli autori del delitto e attribuire a ciascuno di loro le pene spettanti commisurate alle relative responsabilità. Prima di questo momento però abbiamo assistito ad un via vai di persone (indagate!) in ogni tipo di trasmissione televisiva che davano la loro personalissima versione dei fatti, fornivano i loro alibi dinnanzi al presentatore di turno, gli esperti chiamati ad intervenire spesso facevano una sorta di analisi psicologica del personaggio, “ubriacando” l’opinione pubblica con informazioni camaleontiche e molto spesso in contraddizione tra loro, che consentivano il formarsi di pareri a riguardo sempre nuovi.

Ciò non solo è stato nocivo affinché la giustizia facesse il suo corso con i suoi modi e tempi ma proprio per l’impatto fortissimo che questo fatto ha avuto nella cultura di massa:


- ‘il turismo dell’orrore’, la gente si organizzava con i pullman stile campo scuola della parrocchia per andare ad Avetrana e vedere da vicino la casa di zio Michele.


- Zio Michele: nessun indagato ha mai suscitato tanta simpatia come lui, così

tanto da renderlo una macchietta da cabaret (vedi l’imitazione di Checco Zalone che, solo poi, decise di scusarsi e abbandonare il personaggio).


- “Ho stato io co lu trattore”, vi dice niente questo tormentone? Eh sì, perché un’esternazione di Michele Misseri che iniziava in questo modo sgrammaticato è diventata anche un brano che, tutt’oggi, è possibile trovare su Youtube.



Questi sono i tre esempi più eclatanti della vicenda, ma volendo potrei citarne tanti altri, che mostrano come un fatto di tale entità, che andava trattato con estrema cura e riserbo, sia stato masticato e sputato a più non posso a favor di telecamera, tanto da essere inevitabilmente entrato nella cultura di massa in maniera che più che spettacolarizzata definirei quasi circense, per quanto mi riguarda, in maniera inaccettabile.


Tirando le somme, chi scrive ritiene che bisognerebbe evitare che il (sacrosanto) diritto all’informazione degeneri nella patologia del processo mediatico non solo attraverso il buon operato della magistratura, dell’avvocatura e del legislatore ma anche applicando correttamente quelle norme, anche sovranazionali, che consentono di trovare un bilanciamento fra la libertà dei media di diffondere informazioni di natura giudiziaria e l’interesse a preservare i soggetti coinvolti, nonché la fiducia dei consociati nella giustizia.



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