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Se alla pandemia si reagisce con i pieni poteri, ossia la risposta di Ungheria e Polonia al virus.



“La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.” Così ammonivano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni alla fine del Manifesto di Ventotene Per un’Europa libera e unita, pensato nella piccola isola in cui erano confinati, nell’estate del 1941. Certo, riuscire a immaginare e a pensare ad un dopo, ad un post mentre intorno era distruzione e morte non era affatto cosa semplice.

Eppure, da quel Manifesto in poi, la strada percorsa è stata lunga e non meno accidentata, con alterne fortune che hanno segnato il cammino di quella che allora era una mera utopia e che oggi è – nel bene o nel male- una realtà.

L’Unione Europea si trova attualmente al centro della discussione in merito alla risposta che saprà dover dare alla crisi causata dal coronavirus ed è oggi chiamata ad una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero, come lo stesso Papa Francesco ha esortato nel messaggio Urbi et Orbi del giorno di Pasqua.

Ma quella sul coronavirus è solo l’ultima sfida che ha interessato l’Unione negli ultimi anni. Basti pensare alla gestione della crisi migratoria del 2015 che è stata affrontata con strumenti limitati come il Regolamento di Dublino, le cui riforme erano state marginali e il cui superamento era costantemente invocato e sbandierato da gran parte dei partiti dell’arco costituzionale.

È stato quello, sicuramente, uno dei momenti in cui l’UE non è riuscita ad essere all’altezza del ruolo che la storia le affidava, incapace di mettere da parte egoismi nazionali e dando così adito a sentimenti contrari che hanno in gran parte contribuito alla crescita dell’euroscetticismo, enfatizzato dagli stessi che gridavano all’invasione salvo poi plaudere a scelte dichiaratamente antisolidaristiche dei partiti loro alleati, specie nei Paesi dell’Est-Europa, stigmatizzando una mancata cooperazione europea. Ma tant’è.



Già, proprio quegli Stati dell’Est-Europa che hanno aderito all’Unione nel 2004, sulla spinta di un forte entusiasmo sono oggi al centro del dibattito in riferimento allo Stato di diritto, rule of law, il cui rispetto rientra nell’art. 2 TUE come valore su cui l’Unione stessa si fonda. Molto è cambiato quindi da quando la Commissione Prodi allora sembrò non tollerare più un’Europa divisa in due, contrapposta in due blocchi, aprendo quindi le porte a Paesi, tra gli altri, che qualche decennio prima sarebbero stati definiti “oltre cortina”.


Appare oggi insostenibile il comportamento del blocco di Visegrad che pensa di poter stare in Europa ma alle proprie condizioni, contravvenendo alle regole comuni che gli stati, insieme, si sono dati, utilizzando, come accade, la lotta alla pandemia da COVID-19 per attaccare i principi elementari della democrazia e del vivere sociale nel quasi-silenzio delle istituzioni comunitarie.


Quasi-silenzio, appunto, anche perché proprio in uno dei settori più politicizzati dell’opinione pubblica, italiana e non, come l’immigrazione, è intervenuta una sentenza, passata in sordina, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 02 aprile scorso con la quale la Corte ha accolto il ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione contro Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca in forza dell’art. 258 TFUE per il mancato rispetto delle misure nel settore della protezione internazionale a beneficio di Grecia e Italia assunte nel Consiglio Europeo del 22 settembre 2015 sulla ricollocazione dei cittadini di paesi terzi. Questi Paesi infatti rivendicavano una competenza esclusiva per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna nell’ambito di atti adottati nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ritenendo che vi fossero dei rischi derivanti dall’eventuale ricollocazione nel loro territorio di estremisti e di persone pericolose – cito testualmente- che possono commettere atti violenti o perfino di natura terroristica. Tra l’altro, questi Paesi adducevano come causa della loro mancanza di volontà di far fronte alla crisi in atto proprio il malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione a livello europeo. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, secondo la Corte che le ha condannate, non hanno provveduto a indicare a intervalli regolari e almeno ogni tre mesi un numero adeguato di richiedenti protezione internazionale che erano in grado di andare a ricollocare nel loro territorio, nonostante i reiterati richiami della Commissione stessa. In sostanza, si è venuti meno – scrive la Corte di Lussemburgo- al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, principio che disciplina la politica dell’Unione in materia di asilo.



ORBAN, LA COSTITUZIONE DEL 2012 E I PIENI POTERI.


È evidente che la questione non è solo squisitamente giuridica, ma è innanzitutto politica. Se ci limitiamo, per ora, al solo caso ungherese, non possiamo non notare in primis come il partito del Premier Orban, Fidesz, appartenente al PPE, ossia lo stesso gruppo politico cui fa riferimento la CDU della cancelliera Merkel e la nostrana Forza Italia (tanto per intenderci), è stato sospeso dalla federazione dei partiti popolari europei in attesa di una decisione che per la verità sta tardando ad arrivare. A rendere ancora più surreale il tutto sta il fatto che a capo del PPE vi sia Donald Tusk, già Presidente del Consiglio Europeo, le cui posizioni centriste ed europeiste sono invise tra l’altro anche alla sua madrepatria, la Polonia.

Ma procediamo per gradi, ampliando il nostro orizzonte.

Ha destato parecchio scalpore, per usare un eufemismo, la notizia del voto del Parlamento ungherese che ha concesso, qualche settimana fa, con 137 voti favorevoli e 53 contrari, poteri straordinari al presidente Orban che ha dichiarato così lo stato di emergenza giustificandolo con la lotta al coronavirus. È la democrazia, bellezza – qualcuno potrebbe obiettare, con riferimento alla sacrosanta sovranità del parlamento che sembrerebbe richiamare alla mente il “mai svilire il ruolo del parlamento” di finiana memoria.

Obiezioni che potrebbero anche essere accolte se questo di Orban non fosse in realtà l’ultimo tassello di un mosaico che va dalla riforma della Costituzione nel 2012 ad oggi, le cui tessere sono tra l’altro rinvenibili anche nei documenti della Commissione di Venezia e nelle risoluzioni del Parlamento europeo, in particolare in quella del 3 luglio 2013. Tale risoluzione infatti aveva seguito una dura dichiarazione congiunta dell’allora Presidente della Commissione Barroso e del Segretario Generale del Consiglio d’Europa Jagland sul rispetto dello Stato di diritto dopo la quarta modifica della Legge fondamentale che aveva limitato fortemente i poteri della Corte costituzionale ungherese che da quel momento in poi avrebbe avuto il potere di sindacare solo le modifiche di carattere formale e non contenutistico della Costituzione medesima, senza potersi richiamare a decisioni assunte prima del 2012. L’Unione aveva provato a reagire, ma poi accantonò il tutto. Da quel momento in poi, la situazione è -diciamo- precipitata. La commissione di Venezia infatti sottolinea l’uso strumentale del voto negli ultimi anni, con esempi alla mano: il 27 aprile 2017 la consultazione nazionale "Let's stop Brussels" ("Fermiamo Bruxelles") conteneva diverse dichiarazioni e asserzioni che erano oggettivamente errate o estremamente fuorvianti. Il governo ungherese ha anche condotto, nel maggio 2015, consultazioni intitolate "L'immigrazione e il terrorismo" e, nell'ottobre 2017, consultazioni contro il cosiddetto "piano Soros". Tali consultazioni hanno tracciato un parallelo tra terrorismo e migrazione, fomentando l'odio nei confronti dei migranti e verso l’Unione.

Veniamo ad oggi: la concessione di pieni poteri porta Orban a governare con decreto a tempo indeterminato e lo schema che sembra delinearsi all’orizzonte è quello di colpire una minoranza dopo l’altra, partendo anzitutto dal divieto per i transgender di vedersi registrato il cambio di sesso negli uffici di stato civile.



LA POLONIA E LE ELEZIONI VIA POSTA DEL 10 MAGGIO.


Passando ad un altro paese del blocco di Visegrad, la Polonia sembra incamminarsi sulla stessa strada tracciata dall’alleata. Le elezioni presidenziali del 10 maggio prossimo, dopo un periodo di discussione in merito all’eventualità del loro spostamento, sono state confermate e qualche giorno fa il parlamento polacco ha approvato un emendamento alla legge elettorale consentendo così il voto esclusivamente via posta, data l’attuale crisi determinata dalla pandemia. Anche qui, le obiezioni potrebbero rifarsi ad un innato sentimento democratico, ad uno slogan (per la verità anche abbastanza in voga in Italia un paio di settimane fa) come la democrazia non si ferma, certo, se non fosse per il fatto che il direttore delle poste polacche è stato sostituito dall’ex vice ministro della difesa Tomasz Zdzikot e che le presidenziali si svolgeranno al termine di una campagna elettorale praticamente inesistente, dando un margine di vantaggio ulteriore al Presidente uscente Duda, appartenente al PiS, che tradotto in italiano suona come Libertà e Giustizia. Nella vicenda della Polonia sembra riflettersi quanto accaduto in Ungheria, a partire dall’attacco all’indipendenza della magistratura e alle Ong, ai diritti delle donne e a quelli delle minoranze: dopo aver fallito nel 2016 a causa di una mobilitazione di massa, il governo polacco intende sfruttare l’emergenza sanitaria per far passare due leggi, una per limitare l’aborto e l’altra per vietare l’educazione sessuale a scuola, per non parlare poi della creazione di zone LGBTQ+ free con conseguente discriminazione e incitamento all’odio.

Tali posizioni hanno spinto il Parlamento europeo ad approvare il 16 gennaio 2020 una risoluzione sulle audizioni in corso a norma dell’art. 7 paragrafo 1 del TUE nei confronti di Polonia e Ungheria, nei confronti della quale, tra l’altro, la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, si è detta pronta ad agire.



“GUARDARE ALL’EUROPA DA EUROPEI.”


È allora evidente la necessità di dare un’anima all’Unione, un’anima che vada oltre l’economia e la moneta comune, che vada oltre il pur legittimo dibattito tra MES e Coronabond (qui il link all’articolo di Passaporto Futuro https://www.passaporto-futuro.com/post/come-funziona-il-mes) .

Il 25 marzo 2017, in occasione del 60° anniversario della firma del Trattato di Roma, i 27 Capi di Stato e di Governo (con esclusione quindi del Regno Unito) hanno concordato sull’idea di un’Europa a più velocità, dando il via ad una cooperazione e integrazione differenziate che non riguardino tutti gli Stati ma solo alcuni di essi, il che evidentemente se da un lato permette ad alcuni di correre più veloce, dall’altro rischia di far saltare il tutto.

L’Unione non ha saputo cogliere al balzo l’opportunità di cambiare, nonostante i tanti scossoni che ha ricevuto: dal referendum del 2015 sull’austerità in Grecia a quello più famoso sulla Brexit in GB, le istituzioni comunitarie non sono riuscite a leggere lo spirito dei tempi. Secondo molti, il tema è quello della mancata coscienza europea: le divisioni sorte anche nel corso dell’ultimo Consiglio europeo, come anche quelle sorte nel 2015 durante la crisi migratoria e negli anni precedenti durante la crisi del debito, tra i falchi del nord e gli stati del sud sono il frutto anche di una incapacità dei governanti di andare oltre il consenso immediato, “di guardare alle prossime generazioni” anziché alle prossime elezioni, per citare un padre dell’Europa come De Gasperi, e questo mentre negli stati dell’est le violazioni dei diritti si fanno via via più evidenti, arrivando a creare una sospensione preoccupante della democrazia. È questa forse la sfida più alta che attende l’Unione Europea negli anni che verranno, ossia la necessità di far crescere la consapevolezza di abitare una casa comune, l’esigenza di andare a ri-costruire una coscienza comune europea, di “guardare all’Europa da europei”, o almeno provarci. Per ritrovare, insieme, l’orgoglio di dirci europei. Altrimenti sarà stato del tutto inutile richiamarsi a Ventotene, con buona pace dei padri nobili di questa Europa.



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