CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA: LE ORIGINI E L’APPRODO ALLA CORTE EDU
E’ ipotizzabile un concorso nel reato associativo da parte di soggetti estranei all’associazione che contribuiscano alla sua conservazione o al suo rafforzamento?
Questo interrogativo è stato oggetto di un lungo ed intenso dibattito giurisprudenziale. La prima volta che questo reato viene citato è nell’ordinanza-sentenza del primo Maxi processo a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino.
I due magistrati, dopo le prime dichiarazioni del pentito Buscetta, avevano intuito che, per combattere efficacemente la mafia, occorreva un sistema efficace che andasse a colpire le cosiddette zone grigie.
L’obiettivo è quello di ricondurre entro il perimetro del penalmente rilevante l’attività del terzo volta a fornire linfa vitale al sodalizio criminoso.
Tale esigenza sorge parallelamente all’affermarsi di fenomeni di delinquenza sociale, quali il brigantaggio, dilagante nell’Italia preunitaria ed il terrorismo politico degli anni di piombo. Tuttavia, il fenomeno divampa intorno all’inizio degli ’80, quando Cosa Nostra apre la stagione degli omicidi eccellenti.
La mafia non è qualcosa di diverso dallo Stato, ma un potere che riesce a dialogare con le Istituzioni, fino al punto di fondersi con esse, insinuandosi nel tessuto politico e sociale del Paese. La mafia, agendo al duplice scopo di paralizzare le forze repressive ed affermarsi quale soggetto politico su scala regionale, uccide uno dopo l’altro Boris Giuliano, Commissario della Squadra mobile di Palermo, i giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici e il Generale dell’Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi giorni prima dell’approvazione della legge Rognoni-La Torre sul nuovo 416 bis codice penale.
Il legame tra mafia e politica è evidente: cadono anche gli Onorevoli Salvo Lima e Ignazio Salvo, esponenti di Democrazia Cristiana in Sicilia, rei di non aver prestato fede alle promesse fatte a Costa Nostra. Dopo l’introduzione del 416 bis c.p., si assiste ad una normazione emergenziale a cascata, non ancora sufficiente a combattere il fenomeno dell’asservimento della politica alla mafia.
La giurisprudenza, dunque, per non mandare impuniti i “colletti bianchi” della mafia, procede ad un’opera di allargamento delle maglie di operatività del reato di associazione mafiosa, mediante l’applicazione dell’art. 110 codice penale.
Nel silenzio colpevole del legislatore, il dibattito sulla ammissibilità del concorso esterno si fa assordante. Da un lato, la tesi negazionista faceva leva su almeno tre obiezioni. In primis, l’art. 110 c.p., nonostante sia utilizzabile per i reati plurisoggettivi, appare giuridicamente inapplicabile alla fattispecie associativa, giacché, in tal caso, concorrere “nel medesimo reato” implica far parte dell’associazione, apportandone un contributo causalmente rilevante all’organizzazione, con la consapevolezza di partecipare, condividerne il metodo e le finalità (affectio societatis) nonché la realizzazione del programma criminoso.
Invero, il concorrente eventuale dovrebbe non solo porre in essere la condotta materiale per come descritta dalla norma, ma pure dovrebbe agire con la consapevolezza che la sua condotta contribuisca ad alimentare la societas sceleris.
In sostanza, si andrebbe a sovrapporre la condotta del concorrente esterno con quella del partecipante stabilmente all’associazione.
Non si può partecipare dall’esterno, se non partecipando dall’interno: o si è incardinati nell’organizzazione e si risponde per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso oppure se ne è fuori e non si risponde affatto.
Inoltre, il legislatore aveva già provveduto a sanzionare condotte agevolatrici e di fiancheggiamento (art. 378, comma 2 c.p., art. 7 L. 203/91 e 416 ter c.p.) e di tali disposizioni non se ne poteva dare una interpretazione analogica in malam partem. Infine, si obiettavano dubbi di legittimità costituzionale rispetto al principio di eguaglianza ex art. 3 Costituzione, giacché si sarebbe applicato il medesimo trattamento sanzionatorio all’associato ed al concorrente esterno.
Dall’altro lato, stavano i fautori della tesi favorevole, secondo i quali il concorso esterno risultava integrato “tutte le volte che il terzo non avesse voluto entrare a far parte dell’associazione o non fosse stato accettato come socio, e tuttavia prestasse all’associazione medesima un proprio contributo, a condizione però, che tale apporto, valutato ex ante, ed in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità̀ della fattispecie, sia idoneo se non al potenziamento, almeno al consolidamento ed al mantenimento dell’organizzazione criminosa”.
Con riferimento all’elemento soggettivo si richiedeva “la consapevolezza e la volontà̀ di contribuire alla realizzazione dei fini dell’associazione a delinquere”, ossia il dolo di concorso, specifico.
Le Sezioni Unite Demitry nel 1994 sono giunte a dipanare il contrasto interpretativo sul punto, delineando per la prima volta i contorni del concorso esterno e differenziando nettamente la condotta del concorrente esterno rispetto a quella dell’associato.
Commette il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa il soggetto che, estraneo e non inserito nell’organizzazione di stampo mafioso, apporta anche un singolo contributo empiricamente apprezzabile all’organizzazione tale da contribuire al suo mantenimento in vita.
Prima di arrivare alla sentenza Demitry, tuttavia, la strada percorsa dalla giurisprudenza è stata lunga e tortuosa e ha visto numerosi contrasti e attenzioni da parte sia del grande pubblico sia delle istituzioni internazionali, che guardavano con attenzione un’eccezione così vistosa al principio del nullum crimen sine lege.
IL CASO CONTRADA
Il caso sicuramente più noto, per gli esperti del diritto e anche per i più, è il c.d. caso Contrada.
Bruno Contrada è stato un agente segreto, dirigente della Polizia di Stato e del Sisde, l’intelligence italiana, fino a quando, il 24 dicembre 1992, fu arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa grazie ad alcune dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il primo processo a suo carico durò dall’aprile del 1994 al gennaio 1996, quando fu condannato ad anni dieci di reclusione e tre di libertà vigilata. Contrada propose rituale appello e la Corte d’Appello di Palermo, nel maggio 2001, lo assolse perché il fatto non sussiste. Tuttavia, nel 2002, la Suprema Corte di Cassazione annullò la sentenza di assoluzione con rinvio.
È così che nel 2006 la Corte d’appello di Palermo confermò la sentenza di condanna a 10 anni, poi confermata nel 2007 anche in Cassazione.
Hanno fatto seguito una richiesta di revisione del processo, ritenuta infondata sia dalla Corte d’Appello di Caltanissetta che dalla Cassazione, ed una richiesta di grazia al Presidente della Repubblica. Nel 2008 vengono concessi a Contrada gli arresti domiciliari per motivi di salute e nel 2012 termina di scontare la sua pena.
Contrada, da parte sua, si è sempre dichiarato innocente e ha fatto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha sede a Strasburgo.
DAVANTI ALLA CORTE DI STRASBURGO: Contrada c. Italia
È solo nell’aprile 2015 che la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano perché Contrada non doveva essere processato né condannato, poiché al momento della commissione dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era sufficientemente chiaro, né prevedibile, in quanto la sentenza chiarificatrice sarebbe arrivata solo nel 1994 (Sezioni Unite Demitry).
La Cassazione, pertanto, annullava la condanna di Contrada perché “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” e nell’aprile 2020 la Corte d’Appello di Palermo liquidava a favore di Bruno Contrada € 667.000,00 per ingiusta detenzione.
La Corte EDU ha, infatti, affermato che gli atti commessi da Contrada erano precedenti alla definizione del reato di “concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso”, nato dal combinato disposto tra gli artt. 110 (concorso) e 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso) e delineato precisamente solo con la c.d. Sentenza Demitry del 1994. Pertanto, Contrada non poteva sapere di commettere un reato quando lo ha posto in essere e ciò viola il fondamentale principio del diritto penale per cui non si può comminare una pena senza che vi sia una legge precedente che lo preveda (c.d. principio di legalità). Di conseguenza, la Corte EDU ha rilevato la violazione, da parte della sentenza italiana di condanna, dell’art. 7 CEDU, che sancisce il principio di legalità all’interno del Consiglio d’Europa.
Ciò vuol dire che i fatti commessi da Contrada sono stati accertati e risultano da lui eseguiti, ma quei fatti, per quanto afflitti da disvalore soggettivo, non erano previsti dalla legge come reato e, pertanto, chi li ha commessi non poteva essere punito.
CONSEGUENZE DELLA SENTENZA CONTRADA E PROSPETTIVE FUTURE
È chiaro che questa sentenza ha suscitato un certo clamore nell’opinione pubblica e una svolta per gli altri condannati per lo stesso reato. Questi ultimi, infatti, hanno subito avanzato una richiesta di revisione delle proprie sentenze di condanna. Eppure, i giudici italiani in un primo momento hanno negato la revisione, sostenendo che con la sentenza Contrada la Corte EDU non avesse espresso un principio generale del diritto applicabile erga omnes (c.d. procedura Pilota della Corte EDU) e che, pertanto, era applicabile soltanto tra le parti del processo e non per tutti i casi analoghi. Eppure, la Corte EDU non parrebbe dello stesso avviso. Recentemente, infatti, Inzerillo, anch’esso condannato per concorso esterno, ha fatto ricorso alla Corte EDU per le medesime violazioni contestate da Contrada.
Nell’ottobre 2020 i giudici di Strasburgo hanno dichiarato ammissibile il ricorso e, ad ora, siamo in attesa della sentenza che, qualora fosse di accoglimento e di condanna dell’Italia, aprirebbe la strada alla revisione di tutte le sentenze di condanna per concorso esterno in associazione di tipo mafioso avvenute prima dellsi-può-essere-mafiosi-senza-esserloa sentenza a Sezioni Unite Demitry che ha chiarificato i contorni del reato medesimo.
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