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Silvia Romano: finalmente libera ma non dai (pre)giudizi



È passato esattamente un mese da quando il premier Conte, tramite un tweet, ha annunciato la liberazione di Silvia Romano. In un mese la notizia è stata masticata e sputata a più riprese da tv e giornali e, come sempre immancabili, non si sono fatte attendere le opinioni dei tuttologi del web imbastite di stereotipi razzisti e ipotesi di complotti di cui basta la metà per far accapponare la pelle a chi ha ancora un minimo di sensibilità ed empatia.


Volendo fare un breve riepilogo della vicenda:


Silvia Romano, 24enne milanese, si trovava in Kenya a prestare servizio di volontariato per conto della Ong Africa Milele, associazione marchigiana che si occupa di infanzia in diversi Paesi africani quando, precisamente il 20 novembre 2018, viene rapita nei pressi del villaggio Chakama da parte di un gruppo

armato che l’ha prelevata con la forza dal villaggio presso il quale si trovava, quest’ultimo lontano da un centro commerciale e, secondo quanto raccontato dagli abitanti dello stesso, gli aggressori sarebbero andati dritti verso la casa nella quale Silvia si trovava, probabilmente sapendo che lì vi era un’ italiana.

Questo attacco, così come è stato descritto da parte di chi ha assistito, lascia trasparire il suo chiaro scopo estorsivo riconducibile, con molta probabilità, al gruppo jihadista di Al-Shabaab, vicino ad Al-Quaeda.


Una volta rapita, la ragazza è stata ostaggio per 18 mesi, periodo nel quale la stessa racconta di aver tenuto duro pregando, annotando su un diario consegnatole dai suoi stessi rapitori lo scorrere delle giornate,

imparando un po' d’arabo e, infine, leggendo libri tra i quali anche il Corano, sia in arabo che in italiano.

Non ci vuole una mente illuminata per comprendere che quando la stessa dice “mi hanno trattata bene” allude al fatto che hanno soddisfatto le sue richieste senza trattarla FISICAMENTE male, ma questo non vuol dire che stare lì, in quelle condizioni, fosse per lei come stare sulla spiaggia di Formentera tra calciatori

e veline, ma andiamo avanti.


Dopo 18 mesi di prigionia, Silvia Romano è stata finalmente liberata nelle vicinanze di Mogadiscio, capitale della Somalia, in quanto sembrerebbe che proprio lì, dopo essere stata rapita, la giovane sia stata tenuta prigioniera, ed è rientrata in Italia a bordo di un aereo dell’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna).


L’aereo in cui si trovava Silvia atterra a Ciampino domenica 10 maggio, ad attenderla le figure istituzionali del presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte e del ministro degli esteri Luigi Di Maio, che saluta con la mano e con il gomito in accordo alle misure di sicurezza anti-Covid adottate, e i genitori e la sorella con i quali indugia in un lungo abbraccio.


Qui di seguito mi accingo ad analizzare quelli che, secondo chi scrive, sono stati i punti salienti della vicenda che hanno diviso l’opinione pubblica.


1. La questione conversione:



La conversione è stata di certo la “quaestio quaestionum”. Nel momento esatto in cui Silvia scende le scale un particolare balza subito all’occhio di tutti: la giovane indossa uno jilbab, lungo abito verde smeraldo che le arriva fino alle caviglie e i dispositivi di protezione anti-Covid (mascherina e guanti). Lo jilbab, che Silvia non ha mai tolto durante il volo, è stato attribuito alla tradizione nonché alla cultura somale, ma erroneamente, in quanto quell’abito non apparterrebbe storicamente a quella cultura, ma sarebbe solo uno dei tanti tipi di vestiario possibili e attualmente in uso nel Paese Africano. A questo c’è una spiegazione:

la ragazza comunica di essersi convertita all’islam nella seconda metà del suo sequestro in Somalia e ha fatto sapere che la sua è stata una scelta libera, frutto di una riflessione importante, arrivata senza alcuna forzatura da parte dei suoi rapitori. Inoltre alla psicologa dei servizi segreti, che l’ha ascoltata per prima,

avrebbe raccontato di avere un nuovo nome, Aisha.


Su questo punto il mondo del web, i giornali e, oserei dire, la società in toto, si sono divisi: c’è chi ritiene che la sua scelta debba essere rispettata, prima di tutto alla luce del fatto che lei stessa l’ha definita libera e non costretta, a maggior ragione se si considera che esiste un preciso articolo della Costituzione, l’art. 19,

che sancisce la libertà di culto nella nostra nazione; d’altro canto c’è stato chi ha criticato aspramente la sua scelta, come una nota testata giornalistica che parla di Silvia come di un ingrata, rea di essersi presentata dinnanzi alla nazione, la stessa che ha pagato tra i 2 e i 4 milioni di euro (mica noccioline) per

riaverla libera, con la divisa del nemico islamico, specchio di una cultura che tratta la donna come un oggetto che viene rapito, segregato e venduto più volte, invece che scendere quelle scale sventolando il tricolore intonando l’Alleluia di Gen Rosso (gesto che avrebbe molto apprezzato, come esplicitato in un suo

post, anche il noto commentatore socio-politico del web Damiano “er Faina”). Cito testualmente “è come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista.”, paragone alquanto improprio, se non altro se si tiene conto che il nazional socialismo è stato un partito. E non mi pare si possa dire lo stesso parlando di islam!


In realtà la situazione è più complessa di quanto possa sembrare, il che rende impossibile prendere facilmente una posizione netta fra i due opposti sopra citati. Invero la ragazza dinnanzi al magistrato Sergio Colaiocco parla della sua conversione come lenta ma volontaria, non forzata e smentisce di aver sposato

uno dei suoi rapitori; proprio su questo si concentra la prima perizia psicologica dove si parla di conversione “autoprotettiva” e quindi necessaria nella consapevolezza che altrimenti sarebbe stata ridotta a schiava sessuale. In altre parole, secondo fonti investigative, la sua scelta sarebbe stata condizionata dalla

“condizione psicologica in cui si è trovata durante il rapimento”. Sta proprio qui il nodo della matassa:

nessuno potrà mai sapere quali sono le condizioni spirituali e mentali di una ragazza che sopravvive per un anno e mezzo totalmente in balìa di gente che avrebbe potuto farla fuori da un momento all’altro.


In un’intervista al Corriere della Sera il comboniano padre Giulio Albanese usa queste testuali parole:

“L’Islam fanatico ti spinge a uno scambio: la tua conversione in cambio della tua vita. Ne ho conosciuti tanti, di ‘convertiti’. Ho scritto anche un libro sui bambini costretti a combattere, sul lavaggio del cervello che subiscono. Ho visto il sorriso di Silvia, all’aeroporto di Ciampino. Ma quel sorriso non mi dice nulla. Non mi convince. C’è sotto qualcosa di molto più complesso. Io una volta sono stato sequestrato solo pochi giorni, e mi sono bastati per capire come si esca con le ossa rotte, da quelle esperienze”. Detto ciò, dovrebbe apparire chiaro che bisognerebbe quanto meno astenersi dal dare giudizi affrettati e del tutto

inconsapevoli.


2. La scelta di volontariato:



Silvia Romano era una giovane 23enne quando è partita per il Kenya con lo scopo di aiutare i bambini in difficoltà. Questo è un ulteriore punto discusso che può essere così sintetizzato: “Se vai in certi posti, te la cerchi, vai a tuo rischio e pericolo.” Come giustamente ribadito da padre Giulio Albanese al Corriere,

dovremmo essere grati a quei giovani che scelgono di impiegare la propria vita a servizio del prossimo meno fortunato (scelta che non tutti sarebbero disposti a fare, tra l’altro molto in linea con i principi del cristianesimo) piuttosto che augurarci siano dediti solo a cose futili tipo alcol e discoteche. Già potrebbe

essere maggiormente sensato fare un discorso in cui si osservano responsabilità e prevenzione.

Responsabilità, spoiler: non è della ragazza! Silvia riponeva la propria fiducia nella Ong Africa Milele, la stessa che è responsabile, sulla scia dell’entusiasmo solidale della giovane, di averla mandata in un villaggio isolato, privo di un posto di polizia, per lo più senza scorta. Ha usato leggerezza laddove non doveva ed è

stata la giovane cooperante a pagarne le conseguenze che tutti conosciamo.


Prevenzione: considerando che sono circa 20mila gli italiani impegnati all’estero nella cooperazione internazionale, sarebbe opportuno che sia le associazioni di riferimento che lo Stato stesso adottassero delle misure tali, specie nelle zone più rischiose, da assicurare la buona riuscita degli scopi umanitari preposti senza incorrere in risvolti pericolosi e traumatizzanti per la vita di queste persone.


3. È stato pagato un riscatto?



I dettagli della liberazione di Silvia Romano restano un giallo tenendo presente che si è trattato di un’operazione che ha coinvolto i servizi segreti i quali, com’è giusto che sia, svolgono le loro operazioni da sempre in un clima di assoluta segretezza e possono rivelare, a seconda delle situazioni che si trovano

dinnanzi, solo quelle verità che sono autorizzati a svelare. Però quello che gli italiani si chiedono, così come è stato anche per altri rapimenti avvenuti in passato, è se è stato pagato o meno un riscatto, dato che le cifre richieste raggiungono parecchi milioni di euro o dollari (per Silvia Romano si parla di 4 milioni).


Organi specializzati delle Nazioni Unite hanno messo in luce come il rapimento di personale occidentale, insieme al traffico di droga, costituisca una delle maggiori entrate per i gruppi terroristici presenti nel Nord Africa, nel Sahel e nel Corno D’Africa (negli USA i nostri cooperanti sono conosciuti come “Walking Money” denaro che cammina e che qualcuno provvederà a ritirare esattamente come in banca). Tant’è vero che si è venuta a creare nel tempo una catena nella quale gli ostaggi sono rivenduti più volte a bande terroristiche sempre più grandi fino a raggiungere quella che sarà perfettamente in grado di svolgere e seguire le trattativa in piena sicurezza. Dinnanzi a questo, sia l’Italia che altri paesi occidentali, si sono trovati a compiere una scelta difficile: pagare il riscatto o cimentarsi in rischiose risposte di forza dall’esito incerto.


Da quel poco che si sa è presumibile che il nostro Paese abbia sempre preferito imboccare la via meno traumatica del pagamento, il che non può non farci notare (anzi dovrebbe) le conseguenze negative di questa scelta: innanzitutto i soldi andrebbero a potenziare le operazioni terroristiche di questi gruppi senza

contare che la maggior parte andrebbero ad investire nell’acquisto di armi, la situazione però si aggrava se si pensa che, qualora l’Italia dovesse diventare l’unico paese occidentale disposto a pagare i rapimenti, con il tempo questi si concentrerebbero esclusivamente sui nostri concittadini, essendo consci, i rapitori, di andare a colpo sicuro e di non correre i rischi di un rapimento di un americano o francese. Infine, a scanso di qualsiasi tipo di benaltrismo, va comunque detto che in un momento storico come quello che stiamo

vivendo a causa del Coronavirus, che ha portato alla brusca interruzione delle attività produttive, le risorse nazionali dovrebbero in toto essere utilizzate per garantire una ripresa, seppur lunga e complicata.


Questi sono i lati negativi del modo in cui vengono gestite vicende come questa che per nessuna ragione possono e devono essere tenute nascoste ma, al contrario, devono servire da monito per una migliore azione futura in tal senso (facendo gli opportuni scongiuri); sicuramente bisognerebbe trovare un modo per evitare che questi sequestri, architettati ad hoc, non vadano a pesare sulle finanze dello Stato, ad esempio tramite la stipula di assicurazioni da parte degli organismi di cooperazione a favore dei cooperanti mandati in zone fortemente a rischio, ragionamento che ben si collega al discorso circa la responsabilità e

prevenzione di cui si è parlato in precedenza.


Nonostante questi aspetti sfavorevoli, che certamente devono esser tenuti in conto in un’ottica di gestione futura di casi similari, d’altra parte, da cittadini italiani, non dovremmo far altro che rallegrarci dell’epilogo

della vicenda di Silvia Romano, la stessa che, dopo aver passato 18 mesi nelle mani dei terroristi, ha potuto riabbracciare i suoi affetti sana e salva. Per il popolo italiano risulta difficile entrare in contatto, empatizzare, con qualcuno o qualcosa quando non è toccato da vicino da nessuna delle due cose. È

necessario “mettersi nei panni” prima di poter esprimere un pensiero riguardo questa storia che presenta mille punti di luce ma altrettanti di oscurità; bisognerebbe sempre prima domandarsi: “E se al posto di Silvia ci fosse stata mia sorella? Mia madre? La mia fidanzata? La mia migliore amica? penserei ugualmente quello che sto per dire/scrivere?” se la risposta è NO allora bisognerebbe astenersi dal sentenziare, per quanto questo sia lecito.


Detto ciò, l’augurio più grande che si può fare a Silvia Romano è che possa ritrovare quanto prima la serenità e la spensieratezza di cui è stata incolpevolmente privata per ben 547 giorni!




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