Tutti l’hanno vista, la stanno guardando, ne parlano, o ne avranno sentito parlare. Mi riferisco a Squid Game, la serie Netflix coreana che ha spopolato nell’ultimo mese in tutto il mondo e che rischia seriamente di diventare non tanto un prodotto di punta del palinsesto della piattaforma, ma addirittura la serie cult del 2021 (nonostante sia arrivata al grande pubblico nell’ultimo mese).
Come tanti, anche io l’ho vista, e ad essere onesto mi è piaciuta molto. Dopotutto la serie ha tutte le caratteristiche per essere un prodotto accattivante. Personaggi complessi e ben differenziati, che non si riducono mai alla bidimensionalità, perché ognuno è supportato da una storia di vita diversa, che si porta con sé, e crea così un tessuto narrativo molto profondo in senso emotivo. L’azione e la storia, ricca di gioia e dramma, dove, certo, si gioca, come i bambini, ma per la posta in palio più alta che una persona possa mai immaginare di scommettere: la propria vita. Tanto che, in alcuni punti, si trascende la natura concreta del qui ed ora, ma per pochissimi secondi, quasi rispecchiando il pochissimo tempo materiale che i personaggi hanno per riflettere, si ascende quasi a una complessità che, in modo quasi inevitabile, fa porre domande sulla nostra natura.
A partire da ciò, ho quindi iniziato a riflettere su Squid Game oltre il prodotto concreto in sé, cercando di dare una lettura un po’ più ampia e astratta di quello che avevo visto. Quando ho terminato la stagione, ma in realtà anche già durante, mi ero accorto di quanto mi avesse lasciato qualcosa dentro, al di là del puro intrattenimento, e di come tutte le sue caratteristiche, oltre il primo strato dell’immagine, in realtà nascondessero qualcosa di più di una semplice serie. In effetti, ripercorrendo e unendo tutti i punti che si erano fissati nella mia testa, sono arrivato alla conclusione che Squid Game riesce a far emergere, a mio avviso, alcune unità e principi fondamentali della nostra società. Nella sua dimensione parallela alla vita reale, da cui si allontano i personaggi, si ricrea un microcosmo che ha tutte le caratteristiche che, a livello astratto e generale, definisce e caratterizza il nostro mondo, in cui le persone vivono e agiscono l’una accanto all’altra. In questo articolo evidenzierò alcuni tra gli elementi fondamentali che ritengo siano presenti in Squid Game, e che rappresentano alcune unità su cui fonda la società umana i cui noi tutti viviamo.
ATTENZIONE! Potrebbe contenere alcuni spoiler. Nonostante non abbia intenzione di passare in rassegna scena per scena, personaggio per personaggio, il contenuto di Squid Game, è possibile che possa fare riferimento a situazioni o giochi che, inevitabilmente, potrebbero rivelare qualcosa che non avete ancora visto, se non avete terminato la serie. Con questo avvertimento mi sento quindi sollevato da ogni responsabilità e la mia coscienza è, così, a posto.
Partirei da ciò che è più evidente, anche perché è il quid della serie: la vita contro la morte. La vittoria porta ad andare avanti ai giochi successivi. Semplice, no? Tuttavia, la dinamica assume un significato diverso nel momento in cui si capisce che l’eliminazione non è metaforica, ma concreta nella sua accezione più estrema e quasi letterale. Una dinamica inimmaginabile per i concorrenti poco prima dell’inizio di “Un, Due, Tre Stella” (o Stai Là, come preferite), scioccante quando si materializza inaspettatamente ai primi spari dei fucili di precisione, ma a cui tutti si adatteranno pian piano, e che accompagnerà lo svolgimento della gara nel corso delle puntate. Sicuramente i temi della vita e della morte sono costantemente con noi, da sempre e per tutte le civiltà e culture della storie. Eppure, in Squid Game, il tema, per quanto trattato in modo iperbolico e senza filtri, ha una sottigliezza particolare: la vita e la morte, concretamente parte dei giochi, non fanno altro che riflettere ciò che tutti i giorni può accadere in qualsiasi contesto, serio o faceto che sia. L’esclusione da certe dinamiche comporta un allontanamento, una sparizione e quindi un annullamento della persona. Non si fa più parte di quel mondo, non è più possibile più interagirci e, allo stesso tempo, chi è rimasto non può far altro confrontarsi con chi è ancora presente, e non con ciò che è stato, diventato una specie di fantasma. Insomma, dentro si è vivi, presenti, con la possibilità di andare avanti, ma fuori si è morti, non esistiamo più, e ci vengono precluse possibilità e risorse.
Un secondo punto che mi ha affascinato riguarda il concetto di comunità contro quello di individualità. I due sono presenti nel corso di tutte delle puntate, alternandosi e rimbalzando da un personaggio all’altro, che in un momento sono schierati con il gruppo, e subito dopo sono invece estremamente egoisti, tanto da tradire chi era fino a poco prima un amico, o addirittura commettere un omicidio. In tanti giochi sicuramente emergono, ma in modo distinto. Nel caso del tiro alla fune, il gioco di squadra, fidandosi anche di una mossa apparentemente suicida proposta da un compagno (ovvero fare tre passi verso il baratro in un momento di difficoltà) premia i giocatori, che mettendosi nelle mani dell’altro riescono a salvarsi dalla loro morte. Al contrario, il gioco del ponte di vetro mostra quanto l’egoismo sia un cardine nella dinamica sociale del gruppo. Ognuno pensa per sé, e in una logica di “mors tua, vita mea”, spesso il giocatore in seconda posizione spinge il proprio predecessore per non perdere tempo, ma soprattutto capire quale vetro sia temprato e quale no, quindi quale garantisce la vita e quale fa cadere nel vuoto. Eppure, il gioco in cui questa dinamica di comunità ed egoismo emerge in modo più interessante ed intrigante è quello delle biglie, dove nel giro di pochissimi secondi avviene un cambiamento di atteggiamento e comportamento di una portata unica. Le coppie inizialmente sono formate pensando che sia meglio unirsi per vincere, creando quindi un legame a due fortissimo, quasi fraterno, da veri e propri gganbu (come spiegato anche nella serie, un termine coreano che significa “amico speciale”, per cui daresti anche la vita). Tutto cambia quando la coppia giocherà insieme, come previsto, ma scontrandosi in duello. L’egoismo emerge prepotentemente, e porta anche un giocatore come il protagonista 456, che aveva scelto in un atto di buonismo e sacrificio il vecchio giocatore 1, a sfruttare la demenza senile (apparente) dell’avversario per guadagnare le biglie e vincere. Anche il giocatore 69 è un esempio importante: al di là dell’amore per la moglie, gioca per vincere e vivere. Quindi la conclusione è che non dobbiamo fidarci di nessuno e che l’uomo è, di base, egoista? No, non intendo questo, né lo credo. Piuttosto Squid Game mostra quanto entrambe siano parte della nostra vita in ogni momento, e tocchino qualunque persona. Ci conviviamo tutti i giorni, e alla fin fine, sono molto più labili di quanto si possa credere.
Amore e odio sono il terzo punto, rappresentato il primo dal gioco e il secondo dalla guerra. La novità portata dalla trama, che nella sua semplicità apparente da cugino malvagio di Takeshi’s Castle e Mai Dire Banzai, va a un livello molto più profondo e mischia sapientemente l’innocenza di ciò che per tutti sono stati dei passatempi, alla spietata crudeltà e crudezza di un gioco all’ultimo sangue, unendo così quelle che possono essere considerate due sfere opposte del continuum umano: la purezza fanciullesca e la malevolenza dell’adulto. Difatti, tendiamo a giocare con le persone a cui vogliamo bene, con cui abbiamo un legame forte e che, seppur con un minimo di competizione, sappiamo che l’obiettivo finale è divertirsi e stare bene insieme. La guerra, però, è contro non un avversario, ma un nemico, una figura ben diversa, e con un’accezione negativa: è l’altro, il diverso, da eliminare. In un caso, esiste un disinteresse per le conseguenze, ma nell’altro è la supremazia a fare da padrona nella logica, che ha come obiettivo non solo vincere, piuttosto eliminare, per restare l’unica e sola persona, a dimostrazione di forza e superiorità. Il riuscire a far coincidere queste due dimensioni è una delle cose più complesse di Squid Game, perché in un equilibrio complessissimo, non snatura mai l’una o l’altra: i giochi restano giochi, ma pur sempre in un'atmosfera di ostilità e conflitto. Di esempi concreti ce ne sono a bizzeffe, perché tutta la serie è incentrata su questo punto. Esiste comunque un evento che più di ogni altro riassume ciò, e non è un gioco, a dire il vero: il fratricidio. Il Frontman arriva ad uccidere il fratello poliziotto (che, tra l’altro, era andato a cercarlo per salvarlo, in un atto di amore fraterno), perché, a prescindere dal legame di sangue, in quel momento rappresenta un ostacolo, un pericolo e una minaccia per il compimento dei giochi.
Tutte queste dimensioni, a ben pensarci, non sono mai a sé stanti, perché si intrecciano e si sovrappongono, creando un tessuto che non è altro la base della vera grande distinzione che Squid Game crea nel suo mondo: il bene contro il male. La nostra società è da sempre permeata dalla necessità di dare una definizione e una distinzione netta tra le due, e anche nella serie c’è una costante ricerca di ricreare questa contrapposizione, tra ciò che è giusto e sbagliato (spesso mettendo in dubbio quale tra le due possa essere la migliore, per assurdo). La serie coreana racconta in modo diretto, schietto e sincero quello che è il nostro mondo quotidiano, con la grande capacità di designare nettamente per entrambi un carattere denotativo, dando una forma, e connotativo, dando un significato. Il bene e il male non sono mai trattati l’una come categoria residuale dell’altra, ma vengono create situazioni e dinamiche in cui interagiscono e si scambiano, permettendo di definire e individuare ognuna di esse.
In poche parole, cosa ci ha dato Squid Game? Un concentrato della nostra società, dove sono svelate dinamiche in cui siamo sempre e costantemente immersi e di cui, forse, non riusciamo ad accorgerci se non guardandole attraverso il filtro di un gioco mortale.
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