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Stato di emergenza tra valutazioni tecniche e opportunità politica



Era il 31 gennaio quando il Consiglio dei Ministri deliberava lo stato d’emergenza sulla base delle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quando ancora il coronavirus appariva come qualcosa di lontano da noi, quando ancora non eravamo, forse, pienamente consapevoli delle conseguenze di quella che da lì a qualche settimana sarebbe stata dichiarata “pandemia”. Probabilmente, in quel 31 gennaio, nessuno aveva immaginato il costo del COVID, anzitutto in termini di vite, non solo in termini di ricadute economiche.


Così, quella dichiarazione dello stato d’emergenza adottata sulla base dell’art. 24 del d.lgs. 1/2018 (codice della Protezione civile), volta a realizzare una compiuta  azione  di  previsione  e prevenzione, tale da imporre l'assunzione immediata di iniziative di carattere straordinario ed urgente, per  fronteggiare  adeguatamente  possibili situazioni  di  pregiudizio  per  la   collettività   presente   sul territorio nazionale, è divenuta la base di numerose ordinanze emanate durante il lockdown, prima, per diventare terreno di scontro politico tra maggioranza e opposizione, dopo.


È evidente che bisogna prendere coscienza delle implicazioni costituzionali, considerato che lo stato d’emergenza ci accompagnerà fino al 15 ottobre prossimo, così come proposto dal Consiglio dei Ministri e approvato dalle Camere lo scorso 28 e 29 luglio, con lo sguardo rivolto anche agli altri paesi europei e allo sviluppo della situazione epidemiologica, tenendo conto delle posizioni del Governo e delle opposizioni.


Mettiamo le cose in chiaro.


Partiamo da una dovuta precisazione in riferimento alla gerarchia delle fonti: non è la dichiarazione dello stato di emergenza a legittimare le misure straordinarie che sono state assunte in riferimento alle limitazioni della libertà personale. Queste limitazioni, costituzionalmente ammesse sulla base dell’art. 16 che consente dei freni alla libertà di circolazione per ragioni sanitarie, sono fissate dai due decreti-legge 19 e 33/2020, non già sulla dichiarazione dello stato di emergenza: si tratta di limitazioni alla circolazione delle persone e di allontanamento dalla propria residenza o dal proprio domicilio, della chiusura al pubblico di strade e parchi, del divieto di mobilità intercomunale e interregionale, del divieto di riunioni e assembramenti e della prescrizione della quarantena per i soggetti che hanno avuto stretti contatti con coloro che sono risultati positivi. Per una ragione di coerenza, non avrebbe avuto alcun senso -secondo la maggioranza- prorogare quelle misure senza accompagnarle, comunque, alla proroga dello stato di emergenza.


In pratica, a cosa serve lo stato di emergenza?


Allora, qual è la ratio dello stato di emergenza? Il referente normativo è costituito dall’art. 24 del d.lgs. 1/2018, cosiddetto codice della Protezione civile, che consente al Consiglio dei Ministri di deliberare lo stato di emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l'estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l'emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all'articolo 25. Si tratta di ordinanze per il coordinamento dell’attuazione degli interventi da effettuare durante lo stato di emergenza che devono essere adottate in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione Europea. Detto così, il tutto potrebbe sembrare abbastanza astratto, a maggior ragione se si elencano i settori su cui le singole ordinanze possono intervenire: organizzazione ed effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall’evento, il ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, all’attivazione di prime misure economiche e di immediato sostegno al tessuto economico e sociale. Ecco, in termini più semplici (e sicuramente più pratici) la dichiarazione dello stato di emergenza ha consentito di poter facilmente reclutare e gestire task force di personale sanitario, di poter svolgere assistenza alla popolazione mediante numero verde, di poter impiegare il personale della Protezione civile nel servizio di assistenza ai positivi, nonché di allestire le strutture a ciò adibite.


Misure, come il presidente Conte ha detto all’inizio del suo intervento, che sarebbero venute meno se lo stato di emergenza non fosse stato prorogato, tra l’altro in un periodo delicato come quello del ritorno a scuola che tanto sta facendo discutere in riferimento alle tempistiche e alle linee guida che vengono delineate qualora ci dovessero essere dei casi di positività. Insomma, si profila un rientro tutt’altro che ordinato non solo per studenti, ma anche per gli insegnanti e per tutto il personale in maniera più ampia.


Quindi, in radice, vi sono delle motivazioni squisitamente tecniche a giustificare la proroga dello stato di emergenza, motivazioni che trovano il loro fondamento anche nelle raccomandazioni del Comitato tecnico scientifico. A tal proposito, la Fondazione Luigi Einaudi ha ottenuto la pubblicazione degli atti del CTS della fase più acuta dell’emergenza dopo che a questi era stato posto il vincolo di riservatezza: è emerso, non senza sorpresa, che inizialmente il comitato non aveva raccomandato la creazione di un’unica zona, di un’Italia “zona protetta”, come venne ribattezzata, ma propendeva verso la distinzione tra una zona rossa e una zona arancione, almeno stando ai verbali pubblicati sinora. A lungo, durante la fase più dura dell’emergenza, si era parlato di una sudditanza della politica alle decisioni del Comitato tecnico, con la perdita della discrezionalità e dell’autonomia che caratterizzano l’esecutivo, il che aveva prestato il fianco a numerose critiche anche se da quanto emerso fino a questo momento la politica è riuscita invece a ritagliarsi un non-facile spazio di autonomia.



Lo scontro politico.


Su questioni che quindi sembrano essere meramente tecniche nasce lo scontro politico non solo tra maggioranza e opposizione, ma -alla luce della pubblicazione dei verbali del CTS- anche tra Stato e Regioni. Nei fatti, l’opposizione contesta la proroga dello stato di emergenza per due ordini di ragioni: anzitutto è vero che ci troviamo in emergenza sanitaria, ma la situazione non sarebbe minimamente paragonabile a quella cui abbiamo assistito negli scorsi mesi, così che se ci dovesse essere un pericoloso e repentino aumento dei contagi non si impiegherebbe molto tempo a rimettere in moto la macchina organizzativa. L’altra ragione, se vogliamo “meno tecnica” e più politica, è l’accusa di legare indissolubilmente la vita del governo alla durata dello stato di emergenza, portando anche ad un’alterazione dell’architettura costituzionale e alla concessione di poteri extra-ordinem con una prevalenza dell’esecutivo sul legislativo che la Carta non ammetterebbe.


Il governo, dal canto suo, obietta nei fatti che dal 2014 in poi, in Italia, ci sono state ben 154 dichiarazioni di stato di emergenza e circa 84 proroghe, legate ad eventi calamitosi come alluvioni e terremoti: si tratta quindi di eventi che sono, comunque, circoscritti sotto il profilo temporale, non paragonabili alla situazione determinata dal coronavirus. In più, la possibilità -pur non legata alla determinazione dello stato di emergenza- di poter fronteggiare l’emergenza mediante DPCM che devono essere preventivamente resi noti alle Camere assicura un iter molto più trasparente rispetto alla possibilità avanzata da più parti di poter emanare solo ordinanze contingibili e urgenti ai sensi dell’art. 32 della legge 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.


In riferimento alla pubblicazione degli atti del comitato tecnico scientifico è nata un’ulteriore polemica con i governatori di Lombardia, Calabria e Sicilia, anche se per ragioni diverse. Il tema di scontro con il Presidente Fontana sta nell’individuazione della competenza sulla (mancata) creazione delle zone rosse ad Alzano e Nembro con un rimpallo di responsabilità, mentre il tema del contendere con i governatori Santelli e Musumeci nasce dalla natura squisitamente politica del lockdown che a loro parere avrebbe penalizzato il Mezzogiorno, imponendo in maniera sleale la chiusura anche delle regioni del sud. Insomma, si tratta di critiche diametralmente opposte rispetto a quelle sulla subordinazione della politica alla scienza, senza dimenticare che erano proprio i governatori del sud a chiedere misure più stringenti nei primi giorni di marzo, ma tant’è.



E in Unione Europea?


Con lo sguardo rivolto alla dimensione europea, non possiamo non notare che l’Italia insieme ad altri 15 paesi ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria ed è stata l’unica a prorogarlo, comunque nei limiti fissati dalla legge. Tra l’altro, sempre in ottica europea, non dimentichiamo che non pochi timori sul rispetto dello stato di diritto aveva causato la deliberazione dello stato di emergenza nell’Ungheria di Orban, deliberazione vista da alcuni come fiera rivendicazione della sovranità nazionale salvo poi ricredersi nelle aule del nostro Parlamento. Rimane da vedere se la crescita esponenziale dei contagi in Francia, Spagna e nell’est Europa si accompagnerà o meno a misure di prevenzione più severe e restrittive. Ma questo lo scopriremo solo vivendo.


E voi, ritenete che il governo avrebbe dovuto procedere in modo diverso, subordinando la proroga ad una crescita della situazione epidemiologica, o secondo il principio di precauzione ha agito correttamente per evitare di trovarsi impreparato di fronte ad un riacuirsi dell’emergenza? Fatecelo sapere.



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