Autore: #NoemiFrancini
Ci siamo mai domandati quante parole straniere fanno parte del nostro vocabolario quotidiano?
E con quanta naturalezza le usiamo senza pensare che con molta probabilità possediamo numerosi equivalenti nella nostra lingua? Ebbene, questa comune pratica ha portato più di 3.000 parole sull’orlo del disuso. Una specie in via di estinzione, l’italiano.
Quando si adotta una parola proveniente da un’altra lingua si applica un processo che in linguistica viene chiamato prestito. Oggigiorno si tende a prediligere come creditori i colossi internazionali, prima tra tutti la lingua inglese, cesare dei tempi odierni.
È una soluzione facile e anche giustificata per quelle parole che hanno visto la luce in tempi recenti (chi entrerebbe in un negozio di elettronica con l’intenzione di comprare un calcolatore piuttosto che un computer?), ma cosa succede quando questi termini si sostituiscono a parole che la lingua italiana già possiede? Non solo vengono rimpiazzate, ma in egual misura i loro sinonimi e la sfera semantica di competenza: qui si verifica la perdita del vocabolario, l’appiattimento semantico.
Non si fraintenda, lo studio di una lingua straniera non è certo una pratica da scoraggiare, bensì da intraprendere, dato l’arricchimento del bagaglio culturale che ne conviene e i riscontrati benefici che apporta al nostro cervello sotto molti punti di vista: ma ciò non dovrebbe comportare l’annullamento della propria lingua nativa.
Tale perdita ostacolerebbe non solo la comprensione dei grandi testi letterari o di articolati trattati giuridici e scientifici, ma porterebbe a un indebolimento del potere che le parole esercitano, anche nella vita di tutti i giorni. Molto spesso ci riduciamo a dire: «Non so bene come spiegarlo» non per inadeguata comprensione del concetto, ma per propria mancanza di vocabolario.
Credete che sia giusto sacrificare il virtuosismo della lingua italiana in favore di una società sempre più globalizzata o che sia importante dare nuova vita alla lingua di Dante?
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