Stasera, a Rotterdam, andrà il scena la 65° edizione dell’Eurovision Song Contest, la sfida canora più importante d’Europa. Quest’anno, come ben saprete, saranno i Maneskin a sventolare i vessilli tricolore in terra olandese.
Come in ogni occasione da diversi anni ormai, l’Italia é rappresentata dalla canzone vincitrice di Sanremo, a meno che il vincitore dell’Ariston non decida, per scelta personale, di cedere il posto alla canzone seconda classificata. Gli Stadio, ad esempio, vincitori di Sanremo 2016 declinarono l’invito a partecipare all’Eurovision, in favore di Francesca Michielin che portò una versione inglese di “Nessun grado di separazione”.
Nel corso degli ultimi anni questa competizione ha assunto un valore sempre più centrale nel pubblico che l’ha trasformata da gara “di nicchia” a vero e proprio evento di culto. E anche la kermesse sanremese, con i suoi vincitori, sembra aver sentito questa nuova influenza europea.
Proviamo a capire come.
Il primo momento, in “epoca moderna”, nel quale il Bel paese si é avvicinato all’Eurovision é stato nell’anno del suo ritorno, il 2011, quando, un Raphael Gualazzi, fresco vincitore di Sanremo giovani, meglio vestito e meno sudato di quello di Sanremo 2020, raggiunge così, “de botto senza senso” il secondo posto con la sua “Madness of love” all' Eurovision di Düsseldorf.
Il successo é strepitoso e da lì in poi ogni decisione presa dalle varie giurie e dal televoto nella settimana dell’Ariston sembrano quasi prese in un’ottica europea; comincia lentamente a sparire sempre di più la classica canzone sanremese a favore di musicalità (finalmente) più variegate e moderne.
Se analizziamo, infatti, i vincitori di Sanremo dal 2012 in poi troviamo canzoni ed artisti vincenti impensabili anche solo qualche anno prima; le uniche canzoni più classiche che hanno alzato il leone d’oro da lì in poi sono state “Controvento” di Arisa e “Fai rumore” di Diodato. Alla classica "monotonia" sanremese però, in questi casi, c’é da aggiungere la clamorosa potenza vocale di questi incredibili artisti (chissà dove sarebbe potuto arrivare il cantante pugliese l’anno scorso!)
Anche la vittoria de Il Volo, nel 2015, é un successo non convenzionale, arrivato grazie ad un pezzo dalle sfumature pop cantato in versione lirica, una roba mia vista.
Inutile citare poi le vittorie del 2017 di Gabbani (con la scimmia ballante sul palco), quella del 2019 di Mahmood e quella di quest’anno, appunto, de I Maneskin. Queste vittorie potrebbero essere frutto della casualità, ma se osserviamo i vincitori del festival dal 2000 al 2010, troviamo solo canzoni dal sound tipicamente sanremese, così come sempre accaduto all’Ariston.
A questa onda europea che sta travolgendo e radicalmente trasformando anche una competizione storicamente conservatrice, sta cercando di opporsi anno dopo anno, stoicamente, la giuria demoscopia, un gruppo di persone non ben definito che, nelle prime puntate del festival, fa puntualmente svalvolare i telespettatori che, dopo aver tenuto botta fino alle 2 di notte, si trovano primo un artista dal passato glorioso (un Francesco Renga qualsiasi, ad esempio) che magari é stato autore di stecche clamorose durante l’esibizione. Probabilmente, come diceva un grande saggio, il problema di questa giuria “é che stanno diventando tutti teorici”.
Io personalmente spero che anche i prossimi anni siano costellati di vittorie come quelle di Mahmood o come quella de I Maneskin, caratterizzati da musicalità diverse e più appetibili anche a livello europeo. Ogni anno, sempre di più, l’Italia si unisce, come quando gioca la nazionale, a sostegno della musica tricolore all’Eurovision. E dopo averlo sfiorato più volte, da Gualazzi, a Mahmood, passando per Gabbani ed il duo Moro-Meta, adesso sarebbe l’ora di riportarlo a casa! Quindi DAJE tutta Maneskin, portate questo Eurovision Song Contest a Roma!
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