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Storia ed evoluzione del Parkinson


Paralisi agitante – “Shaking Palsy” – fu il termine con cui James Parkinson, medico di campagna inglese, descrisse per la prima volta nel 1817 la malattia che oggi ha il suo nome.

Nonostante l’importanza della sua scoperta, egli rimase sconosciuto per diversi decenni – al di fuori dell’ambito della medicina – tanto che scrissero di lui nel 1912 “Nato in Inghilterra, cresciuto in Inghilterra, dimenticato dagli inglesi e dal mondo in generale, questo è stato il destino di James Parkinson”.

Non altrettanto possiamo purtroppo dire sulla patologia, che con una prevalenza di 150 casi su 100.000 abitanti è la malattia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer.

L’età media di insorgenza è 68 anni per gli uomini e 70 per le donne, sebbene ci siano anche casi più rari di esordio precoce a partire dai 20 anni.


La causa è da ricercare nella morte dei neuroni secernenti dopamina che fanno parte della cosiddetta via nigrostriatale.

Possiamo infatti paragonare il nostro sistema nervoso alla rete metropolitana di una grande città. Ci sono le stazioni e le vie che le collegano.

Come una metropolitana, diverse molecole chimiche - i neurotrasmettitori - portano messaggi di stimolo o inibizione da una stazione all’altra. Le stazioni sono rappresentate dai neuroni.

La metro va per esempio da Milano Centrale al Duomo: la dopamina parte dalla ‘stazione’ Sostanza Nigra e arriva alla stazione Corpo Striato.

La via nigrostriatale regola i movimenti automatici, per esempio l’espressività del volto, il movimento degli arti superiori durante la camminata, la scrittura, la masticazione, la posizione eretta.


Per spiegare come agisce la dopamina riprendiamo una delle scene finali del romanzo ‘Harry Potter e la Pietra Filosofale’ di J.K. Rowling.

Harry Potter ed i suoi amici per trovare la pietra filosofale si imbattono in un grosso cane a tre teste.

L’unico modo per far addormentare il cane e riuscire ad entrare nel passaggio sotto la botola è suonare della musica. Solo con questa il cane si addormenterà e loro potranno passare senza essere sbranati.

La dopamina agisce come la musica. Normalmente, i neuroni che trasmettono l’impulso per il movimento a livello centrale (Harry e i suoi amici) sono inibiti da altri neuroni (il cane a tre teste).

Quando interviene però la dopamina, questa inibisce i ‘neuroni cane’ rendendo i primi neuroni liberi di trasmettere il segnale per il movimento.


È stato ipotizzato che alcuni geni siano responsabili dell’insorgenza del Parkinson, in concomitanza con fattori ambientali. Tra questi ricordiamo l’esposizione a pesticidi e ad agenti tossici in ambito agricolo e i traumi cranici ripetuti (per esempio negli ex pugili).



Come si manifesta la malattia?


I segni classici del Parkinson sono tre: tremore a riposo, rigidità e acinesia (una riduzione e una lentezza nei movimenti).

Il tremore a riposo colpisce circa il 70% dei malati, aumenta con la stanchezza, le emozioni e gli sforzi intellettivi (per esempio il calcolo a mente) e tende a scomparire durante i movimenti volontari. Non è presente durante il sonno e colpisce soprattutto gli arti superiori.


L’ acinesia provoca un’amimia del volto, con una ridotta frequenza dell’ammiccamento. La mimica volontaria è invece conservata. Anche la parola viene intaccata, e può diventare poco comprensibile.

Sono presenti minori oscillazioni dell’arto superiore durante la marcia.

Il paziente mostra una progressiva riduzione della funzionalità dall’arto superiore e difficoltà ad effettuare azioni quali lavarsi i denti o scrivere. I movimenti saranno in generale rallentati.

La rigidità è determinata da un ipertono muscolare, che spesso non viene avvertito dalla persona (che riferisce però una sensazione di disagio al movimento).

Col tempo la malattia provocherà alcune alterazioni della postura, con tendenza alla semiflessione di braccia e gambe. Il tronco tende ad essere portato in avanti.

A questi sintomi principali possono associarsene altri quali ansia, depressione, insonnia, ridotta capacità di sentire gli odori (iposmia), alterazioni dell’equilibrio e conseguente rischio di cadute, perdite della memoria.


Come si cura?


Non esiste ancora una terapia in grado di eradicare completamente la patologia. I trattamenti disponibili attualmente permettono di ridurre i sintomi e migliorare, dunque, la qualità di vita dei pazienti.

L’approccio alla malattia prevede generalmente l’unione tra terapie di supporto, come la fisioterapia, la terapia occupazionale e riabilitativa, ed i farmaci.

La levodopa (L-Dopa) è uno dei principali trattamenti utilizzati per la gestione del Parkinson. Questa molecola viene convertita dal nostro organismo in dopamina e riesce dunque in una prima fase a compensare la perdita dei neuroni dopaminergici, sostituendosi al neurotrasmettitore naturale.


Dopo qualche anno di trattamento però il farmaco causa effetti collaterali importanti in più del 50% dei casi, soprattutto movimenti involontari anomali (discinesie) che peggiorano la qualità di vita del paziente. Se da un lato una ridotta presenza di dopamina determina rigidità (come avviene nel Parkinson) la sua eccessiva presenza (legata al farmaco) comporta un’eccessiva motilità. Questa può essere lieve o violenta e rappresenta in quest’ultimo caso un pericolo per lo stesso paziente ed i familiari, oltre che un ostacolo all’esecuzione delle normali attività.


Uno studio effettuato dal laboratorio di Neurofarmacologia dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, insieme a diverse università estere, apre una nuova speranza nella gestione di questi effetti collaterali.

Sulla base dei risultati ottenuti, si è osservato che nei pazienti trattati per lungo tempo con L-Dopa si formerebbe un complesso tra due recettori, i recettori D1 della dopamina e i recettori mGlu5 dell’acido glutammico. Questo provocherebbe un cambiamento nel sistema di trasmissione neuronale che è

responsabile nel lungo termine delle discinesie.


La scoperta apre la possibilità di creare nuovi farmaci in grado di disassemblare il complesso molecolare e dunque prevenire o mitigare gli effetti collaterali.

Saranno naturalmente necessarie nuove ricerche, ma se questa possibilità venisse confermata rappresenterebbe un grande passo avanti nella gestione della malattia.

Pensi che la ricerca sarà in grado, nei prossimi anni, di confermare gli studi e produrre questi farmaci?




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