Autore: #DanieleTrizio
Sono trascorsi quattro anni, cinque mesi e undici giorni da quando il Leave ha vinto nei confronti del Remain. Per finalizzare invece l’accordo che definisca il futuro di quella decisione il tempo rimasto è decisamente meno: ventotto giorni.
Ma come è possibile che dopo tutto questo tempo, a quasi un mese dal termine, non sia ancora possibile porre la parola “fine” alla Brexit? Cosa è stato fatto sino ad ora e cosa impedisce ai negoziatori di definire un accordo che, se non raggiunto, imporrebbe ingenti perdite ad ambo le parti? Ancora, in cosa consisterebbero questi danni?
L’ambizioso obbiettivo di questo articolo è darvi semplici ma sufficientemente esaustive risposte a queste domande, sperando di fare un po’ di luce su quello che si appresta ad essere un degno finale di stagione per questo 2020.
Iniziamo ripercorrendo speditamente gli eventi che hanno fatto seguito al voto del 23 Giugno 2016.
- Il giorno successivo al referendum, Cameron (Primo Ministro in carica) annuncia le sue dimissioni. Sarebbero avvenute effettivamente il 13 luglio successivo. - Due giorni dopo questa data, Theresa May prende il suo posto a capo dell’esecutivo. - Da quel momento saltiamo al 29 Marzo 2017 quando il Governo inglese attiva formalmente l’Art. 50 del TUE (Trattati sull’Unione Europea) avviando ufficialmente le procedure per il divorzio. - 24 Maggio 2019: Boris Johnson succede a Theresa May, dimessasi dopo una serie di insuccessi subiti in parlamento durante la fase di stesura del Withdrawal Agreement (l’accordo di recesso). - Con la ratifica da parte del Consiglio dell’Unione Europea, successiva all’approvazione del Parlamento Europeo, il Withdrawal Agreement entra ufficialmente in vigore il 31 Gennaio 2020 (dopo che il Parlamento inglese lo aveva approvato a sua volta circa una settimana prima). L’accordo sancisce condotte specifiche da adottare su determinati temi (come i diritti dei cittadini europei e inglesi), intese di massima su altri (come la gestione del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord) e definisce le future scadenze, compreso il termine ultimo per il periodo di transizione, fissato per il 31 dicembre 2020. Dal 1° febbraio 2020 il Regno Unito non è più un membro dell’Unione Europea.
Ed ecco che arriviamo al presente. Nonostante il Regno Unito non sia più un membro comunitario, fa ancora parte di altre due istituzioni estremamente importanti: il Mercato Unico Europeo e l’Unione Doganale Europea. Queste aree commerciali assicurano standard di sicurezza omogenei delle merci circolanti, l’assenza di controlli alle frontiere per beni, lavoratori, capitali e servizi (il Mercato Unico) e infine una condotta fiscale uniforme nei confronti delle merci importate dall’esterno della zona economica (l’Unione Doganale).
Tra i temi su cui sembra persistere più disaccordo vi sono infatti i controlli e la gestione dei flussi commerciali alle frontiere. Se è vero che imporre il minor numero di dazi possibile e assicurare una fluida circolazione delle merci siano auspici comuni, i metodi per raggiungerli sono ancora in fase di definizione.
Bisogna chiarire che oltremanica questo periodo di transizione è una sconfitta politica ogni giorno che passa. Da gennaio infatti il Regno Unito sta continuando a contribuire al budget europeo e a sottostare alla legislazione e alla giustizia europea senza poter partecipare al processo legislativo, avere diritto alla rappresentanza o al voto nelle istituzioni. Tutto ciò mentre continua a essere garantita, tra le altre, la libera circolazione degli europei nel territorio nazionale (e viceversa ovviamente). Anche per questo motivo è stata fissato come termine ultimo per la fine dei negoziati il 31 dicembre 2020. Superata questa data, se non saranno definiti accordi alternativi, le relazioni commerciali tra Unione Europea e Regno Unito saranno disciplinate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e le rispettive tariffe, estremamente svantaggiose, entreranno in vigore. Proprio a causa del costo economico che queste tariffe impongono, tra paesi è solito siglare accordi commerciali bilaterali (o multilaterali, come tra l’altro il recente trattato RCEP appena siglato da Cina e altri 14 paesi) in modo tale da adottare tariffe e dazi più vantaggiosi, tenendo in considerazione le esigenze dei paesi coinvolti e agevolare i flussi commerciali interni.
Approfondiamo quindi ora quali sono questi motivi di paralisi.
In primis: la pesca. Può sembrare strano ma il più significativo motivo di frizione tra le parti è la gestione della pesca. Sino ad ora i pescatori inglesi hanno dovuto sottostare a stringenti limitazioni su questo tipo di attività, dovendo condividere la propria zona economica esclusiva di pesca con pescherecci irlandesi, francesi o olandesi. Non è un caso che proprio il settore ittico è stato tra i più schierati a favore del Leave. Già nel 1970, quando il Regno Unito stava trattando per entrare a far parte dell’allora Comunità Europea, il nodo della pesca risultava preponderante rispetto ad altre problematiche. È interessante far notare che il referendum che sancì l’abbandono da parte della Norvegia dei tavoli negoziali per diventare un membro della Comunità Europea fu significativamente influenzato proprio dalla volontà di difendere l’attività ittica nazionale. Dopo che l’ultima proposta di un rimborso sul pescato “per mano europea” è stata rigettata, il nostro capo negoziatore Micheal Barnier ha spiegato come la posizione inglese a riguardo si sia dimostrata spiccatamente poco collaborativa, sia durante l’estate che in questa fase finale del negoziato.
La gestione delle future controversie. “trust is good, but law is better” ha detto la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen a riguardo di questo delicato tema. Si riferisce alla volontà, più europea che inglese, di definire meccanismi efficaci e chiari per affrontare e risolvere le future controversie legali che è altamente probabile si verifichino nel prossimo futuro. Il tema della sovranità nazionale torna a ricoprire un ruolo importante: l’Unione Europea punta a far rispettare gli standard che sono stati in essere sino ad ora in tema di cambiamento climatico, protezione dei dati personali e trasparenza fiscale anche in futuro. Potreste sentire parlare di questo tema col termine inglese level playing field, che prevede appunto la definizione di standard comuni volti a contrastare ad esempio la competizione sleale tra aziende appartenenti a paesi diversi.
Aiuti di stato. Una parte delle trattative sul level playing field riguarda gli aiuti di stato. La legislazione europea pone infatti limiti ai sostegni economici che i singoli Governi possono garantire alle proprie aziende. Sussidiare le compagnie in difficoltà attraverso fondi statali è considerata una pratica scorretta nei confronti delle altre aziende europee in quanto rischia di falsare il principio di leale concorrenza all’interno del libero mercato europeo.
È importante sottolineare che un accordo capestro favorevole agli inglesi comporterebbe una posizione privilegiata per la loro economia potenzialmente per decenni. Un ulteriore rischio è quello di permettere al Regno Unito di assumere una identità ibrida, non facendo effettivamente parte delle istituzioni europee ma a godendo di numerosi benefici che esse possono assicurare. Ciò potrebbe avere ripercussioni sul generale sentimento antieuropeista di alcuni movimenti presenti in determinati paesi, che potrebbero considerare il precedente della Brexit come modello per le loro battaglie politiche. Da parte inglese invece un accordo che sancisse un continuo perdurare della condizione di sovranità limitata, nonostante l’abbandono dell’Unione Europea, comporterebbe una sconfitta difficile da superare per il Partito Conservatore.
Entrambe le parti hanno molto da perdere e questo potrebbe spiegare in parte la rigidità con cui sono state e continuano a venire condotte le trattative.
Intanto i cittadini inglesi stanno già cominciando a fare i conti con la loro rinnovata indipendenza vedendosi negato, in caso di un mancato accordo a riguardo, il diritto di soggiornare per più di 90 giorni in un paese europeo, nonostante eventuali immobili di proprietà in esso posseduti e l’abitudine a trascorrerci lunghi periodi durante l’anno.
Eccoci quindi all’interrogativo che molto probabilmente ci portiamo con noi da fin troppo tempo: riusciranno i negoziatori a raggiungere un accordo in extremis e a porre fine consensualmente alla Brexit?
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