Dubbi e critiche sembrano essere, soprattutto negli ultimi anni, delle costanti in ogni tipo di esposizione artistica, accompagnate sia dal sistema legislativo italiano (particolarmente oppressivo in maniera di beni culturali) che da un atteggiamento cauto delle istituzioni museali.
Allestire una mostra in un luogo storico come Galleria Borghese è indubbiamente un’impresa non facile, eppure rispetto a tante altre residenze storiche oggi adattate alla funzione museale, la Villa Pinciana è stata pensata dal suo committente, Scipione Borghese, come un luogo dove poter conservare e fruire al meglio la sua collezione d’arte.
Scipione Borghese, cardinal-nipote di Papa Paolo V, fu un mecenate e collezionista dai gusti raffinatissimi, tanto che ad oggi la Galleria ospita nomi più che illustri della storia dell’arte come Antonio Canova, Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Tiziano, Raffaello, Gian Lorenzo Bernini e, grande vanto della collezione, sei tele del Caravaggio, la più grande concentrazione di opere del pittore in un museo al mondo.
Seguendo una metodologia di ricostruzione delle collezioni Borghese, a seguito dell’acquisto della Villa Pinciana da parte dello Stato Italiano nel 1902, tutta la quadreria della famiglia (al tempo conservata nel palazzo cittadino in Via Ripetta) fu spostata al piano nobile di Galleria Borghese, mentre al primo piano si cercò di ripristinare l’allestimento originale della statuaria classica e contestualmente delle opere d’arte antica e moderna.
L’effetto finale è mozzafiato. Gli ambienti principeschi sono immersivi e carichi di una storia che ci invitano a rivivere durante la visita.
Tuttavia, in ambienti così carichi l’inserimento di opere d'arte estranee alla collezione permanente rischia di modificare radicalmente quell’equilibrio estetico così faticosamente raggiunto, e allo stesso tempo non si può nemmeno pensare che, un museo così importante, non presenti al suo pubblico delle proposte culturali esterne alla sua collezione.
Il rischio della "non mostra" è quello di perdere quel pubblico che ha già visitato la Galleria e che ora, grazie alla curiosità innescata dall'evento, ritornerà a visitarla.
Ma Galleria Borghese non è nuova a questo tipo problemi: nell’estate del 2021 apre una mostra che non sarebbe stata esente da critiche: "Archaeology Now" di Damien Hirst.
La mostra di Hirst partiva dall’immaginario ritrovamento di un relitto che conteneva dei tesori inestimabili, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, e che furono allestiti tra le opere della collezione permanente creando un corto circuito tra quelle che erano delle opere di vera statuaria antica e quelle di Hirst che “fingevano” di esserlo. Tra chi non tollerava la compresenza di arte antica e contemporanea e chi non apprezzava l’artista in sé, la Galleria ha comunque saputo portare avanti un programma ricco di appuntamenti culturali e workshop ad hoc per rivolgersi ad ogni tipo di pubblico.
Ma veniamo ad oggi.
Sotto l’attento sguardo del Ministro Franceschini apre a Roma il 28 febbraio di quest’anno “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”. L’allestimento di questa mostra era stato pensato per permettere una fruizione contemporanea tra le opere del “Pittore della perfezione” e quelle già presenti in collezione evidenziandone le connessioni tematiche, stilistiche, iconologiche e formali.
Il luogo maggiormente criticato dell’intera mostra è stato proprio l'inizio del percorso: all’interno del grande Salone d’Ingresso sono state allestite quattro grandi pale d’altare del Reni, uno dei generi in cui fu più grande, tra cui la Crocifissione di San Pietro (1604-5), prestito dai Musei Vaticani, la Trinità con la Madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo (1603-4 c.a), il famosissimo Martirio di Santa Caterina d’Alessandria (1606 c.a) e il Martirio di Santa Cecilia (1601).
L’allestimento pensato dall’architetto Enrico Quell prevedeva che tutte queste opere si trovassero al centro della sala circondando un tappeto musivo di epoca romana. L’architettura effimera su cui poggiavano le pale d’altare, inclusa la sfortunata tela rappresentante San Francesco che riceve le stimmate (appartenuta alla Confraternita delle Sacre Stimmate di Campagnano), arrivava ai polpacci e, a detta di operatori museali e visitatori, era facile inciamparci.
Quello che si può vedere in foto è il risultato di questo allestimento e di un malore (o disattenzione?) di una visitatrice: un piccolo squarcio (circa 3-4 centimetri) ai piedi della tela su cui i restauratori della Sovrintendenza interverranno a mostra conclusa.
Un aneddoto riguardante questa tela è che Guido Reni, devotissimo al poverello di Assisi, realizzò questa tela a titolo quasi gratuito, pagando di tasca propria addirittura i materiali.
La domanda che possiamo porci allora è: fino a che punto possiamo mettere a rischio le opere d’arte al fine di raggiungere un obiettivo, intellettuale o estetico, che sia?
Questo non è stato il primo, né sara l’ultimo incidente che capiterà nei musei: basterà ricordare quanto accaduto alla Gipsoteca di Possagno nel 2021 quando, a causa di un turista, il gesso della Paolina Bonaparte di Canova perse due dita, l’accidentale accidente all’installazione della Infinite Mirrors della Kusama a Washington, il turista che nel 2019 staccò in pieno giorno tessere musive dagli scavi di Pompei o il bambino che sfuggito dal controllo dei genitori si aggrappa alla statua del San Luca sulla facciata della Chiesa dell’Orsanmichele, rovinandola.
Ciò che possiamo limitarci a fare è imparare a capire con cosa ci stiamo confrontando quando siamo in contesti museali o in città d’arte, riconoscerne il valore, tramandarne la storia e, magari, prestare un po’ più di attenzione.
Autore: #AsiaSimonetti
Comments