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Il rapporto fra sport e razzismo


Periodi di grande incertezza spesso esasperano problematiche sociali mai del tutto sopite. Una di queste è il razzismo. In modo particolare negli Stati Uniti, il Paese delle opportunità, eppure da sempre caratterizzato da importanti differenze culturali e forti contraddizioni. Le recenti manifestazioni di protesta e rivolta sociale in seguito alla morte di George Floyd, afroamericano ucciso durante un arresto da parte della polizia, hanno riacceso i riflettori su quella che, delle molte problematiche della società americana, è forse la più profonda.

Lo sport e i suoi atleti si sono più volte schierati prendendo posizioni di netta condanna nei confronti di atteggiamenti intollerabili. La natura stessa dell’evento sportivo, la capacita di riunire masse di spettatori e veicolare messaggi, rende possibile sollevare questioni delicate e trattare tematiche sociali di ampio respiro.

Recentemente l’NBA, in occasione della ripresa della stagione, ha dato il via libera all’iniziativa di sostituire i nomi dei giocatori sulle canotte da gioco con parole che rimandino a messaggi di giustizia sociale: la ripartenza del campionato è sintomo di un forte messaggio di lotta della collettività.

Nella lotta per cambiare il futuro, dare uno sguardo al passato può essere fonte di ispirazione. In quest’ottica è nostro interesse condividere l’affascinante avventura di coach Don Haskins e dei suoi Texas Western Miners, una storia che merita senza dubbio di essere raccontata.



ROAD TO...

1966, Texas. Nello Stato in cui il basket è uno degli sport più praticati, Don Haskins è il coach delle squadre femminili di basket di alcune piccole high schools. Al tempo stesso allena le squadre maschili di football e basket. È giovane ed ancora relativamente inesperto, ma ha carisma da vendere e di palla a spicchi se ne intende.

Se ne accorgono anche alla Texas Western University di El Paso (oggi Texas-El Paso o UTEP), che lo tenta offrendogli la possibilità di competere a livelli più alti, ovvero in NCAA (torneo nazionale di basket universitario). Haskins inizia la sua avventura a Texas Western nel 1961 e durante quella stagione i Miners (soprannome della squadra) chiuderanno con un record di 18 vittorie e 6 sconfitte.

Come detto, Don è giovane, ma in testa ronzano già idee e progetti ambiziosi quanto basta per superare le iniziali difficoltà di un college piuttosto arretrato. I fondi scarseggiano, così come giocatori minimamente competitivi; le aspettative dell’università si sposano perfettamente con questi problemi.

Il carattere di Don ? Assolutamente no. Haskins prende la situazione di petto (caratteristica che gli varrà in futuro il soprannome “The Bear”, l’orso) investe soldi di tasca propria e comincia a girare gli Stati Uniti in cerca di talenti con uno stile di gioco che si adatti gli schemi ben chiari che ha in testa. Torna indietro con sette giocatori afroamericani strappati alla strada, a cui si aggiungono altri cinque bianchi che completano la rosa.



Il problema più grande però, non è di natura tecnica, bensì psicologica. La mentalità razzista e chiusa del Texas rappresenta il problema più grande per un allenatore che, oltre a dover affrontare spinose questioni burocratiche, deve in primis gestire i propri giocatori, convincerli a restare e a fidarsi di lui.

Il primo passo, quello più difficile, è quello di eliminare qualsiasi tipo di astio all'interno del gruppo, di motivare i giocatori. Haskins deve affrontare innumerevoli difficoltà, ma il risultato è eccellente, non solo dal punto di vista dei risultati; tutti i giocatori, bianchi e afroamericani, sotto la sua guida compiono un percorso di maturazione che li porterà a fare la storia.

Il percorso è complicato. Spesso la squadra si scontra con un clima di diffidenza e tensione. In occasione di una trasferta, la squadra si vede rifiutare il servizio a diversi ristoranti e allontanare da più di un hotel. Uno dei giocatori afroamericani, Jerry Armstrong riporta di essere stato esposto ad epiteti di natura razzista e derogatoria (“We heard some derogatory remarks out on the road").

La stagione successiva, Haskins ricevette una minaccia di morte prima di un match a Dallas, per il semplice fatto di schierare atleti afroamericani ("A guy called me up and said he'd shoot me 'if the n------ step on the floor”).

...GLORY

A Don Haskins va riconosciuto il merito di aver coraggiosamente deciso di investire su giocatori afroamericani, sperimentando diverse volte un quintetto titolare di soli atleti di colore, con risultati molto soddisfacenti. I Texas Miners di El Paso Texas dominano il campionato dando spettacolo, arrivano in finale e addirittura vincono il titolo contro i favoriti Wildcats di Kentucky, guidati in campo dalla futura leggenda della NBA Pat Riley e in panchina da un monumento della NCAA, Adolph Rupp. È su questo palcoscenico che il coraggio di Haskins getta le basi del cambiamento. Il messaggio implicito lanciato alla società americana apre gli occhi sulla questione del razzismo. In Glory Road, trasposizione cinematografica di questa stupenda storia, Hollywood gioca con i dettagli storici e amplifica l’eco del messaggio.

La sera prima della partita viene dipinta come un momento topico, forse il più importante della NCAA e del basket americano in generale: Don non riesce a dormire, troppo alta la posta in palio. In gioco non c’è più soltanto un titolo universitario, ma una delle contraddizioni più profonde degli Stati Uniti, quel razzismo di fondo ancora non sopito. Intorno alla mezzanotte raduna la squadra al completo e sulle gradinate dove il giorno dopo si giocherà la finale annuncia, con un discorso memorabile, che a giocare quella finale saranno soltanto i sette giocatori neri. Un intero quintetto di neri in una partita ufficiale, per di più la finale NCAA. Mai successo prima. Don Haskins gioca duro contro tutta l’America. Apre la strada al futuro spazzando via pregiudizi già uccisi dal presente, rispedendoli nella storia, nel passato, in cui dovrebbero sempre far parte e dove purtroppo ancora oggi rischiano di non invecchiare.



Come accennato in precedenza la realtà è leggermente diversa. Se è vero che Haskins decise di schierare un quintetto di soli afroamericani, è anche vero che questi rappresentavano di fatto i migliori giocatori della squadra e, di conseguenza, la migliore chance di vittoria. Lo stesso coach confessò in un intervista di non aver dato molto peso al messaggio implicito della sua decisione, almeno fino a quando i Miners non vinsero il titolo e si iniziò a far notare come un quintetto di afroamericani avesse sconfitto un quintetto di bianchi.

Indipendentemente da come siano andate realmente le cose, la storia era stata scritta. Da quei sette giocatori di colore nascerà il basket moderno.

Quella di Don Haskins e dei suoi Miners resta oggi una delle più belle ed emozionanti storie sportive di sempre, il cui significato va ben oltre la vittoria di un titolo universitario: è la storia di un percorso di maturazione che parte dai singoli, di qualsiasi razza, e raggiunge la collettività.

Se la storia vi ha appassionato, consigliamo vivamente la visione del film "Glory Road- vincere cambia tutto" (USA, 2005), in cui si narra l'avventura di Don Haskins e dei suoi leggendari Miners.


E voi, cosa ne pensate? Secondo voi le storie di sport possono ispirare un cambiamento sociale?


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