Uno dei temi più caldi di queste Olimpiadi è stato quello della salute mentale degli atleti, in particolare il crollo mentale e il ritiro dalle gare di Simon Biles. La giovane ginnasta arrivava da favorita dopo le grandi prestazioni di Rio 2016, e tutta l’attenzione di media e tifosi era rivolta su di lei. Con grande stupore di tutti però, l’atleta afroamericana si è prima ritirata dalle competizioni in cui, secondo le aspettative generali, avrebbe dovuto dominare, ha successivamente commosso con la sua confessione riguardo il tracollo mentale che l’ha costretta a dare forfait. La decisione della Biles ha puntato i riflettori su quello che é un tema forse ancora troppo poco discusso, ovvero quello della salute mentale degli atleti.
Si tratta di un argomento interessante, in quanto spesso, soprattutto da tifosi, siamo abituati a giudicare un atleta solo ed esclusivamente dai risultati raggiunti. Naturalmente nell’analizzare prestazioni individuali o di squadra in ambito sportivo il metro di paragone sono i successi e le vittorie.
Restando in tema di Olimpiadi, lo status di leggenda acquisito da Michael Phelps o Usain Bolt è legato al numero di ori conquistati, al numero di gare vinte, al dominio in vasca o su pista. È pero interessante fare un’osservazione: si tratta di atleti che competono in discipline individuali.
Durante il resto dell’anno l’attenzione del grande pubblico si focalizza generalmente sugli sport di squadra. Che si tratti di calcio o basket, oppure spostandosi oltreoceano di football americano o di baseball, le discussioni di analisti ed ex giocatori riguardano principalmente gruppi di atleti osservati nel loro contesto di squadra. Certamente, le analisi si spostano poi quasi sempre dal gruppo al singolo, soprattutto se il leader o superstar di quella squadra dovrebbe mantenere certe aspettative, che si tratti di un giocatore o dell’allenatore. Ciononostante, qualora la critica sia rivolta al singolo l’analisi finisce poi per ritornare sul gruppo. Quante volte si sentono commenti del tipo “Tale atleta X con le sue prestazioni non può condurre la sua squadra al titolo” oppure “ Giocatore Y non gioca per i compagni, non li aiuta a vincere, non li fa migliorare.”
Forse sarebbe opportuno scindere l’atleta dal contesto del gruppo. Nel 2018 il cestista americano Kevin Love fece grande scalpore pubblicando una confessione in cui dichiarava apertamente di aver sofferto di attacchi di panico, uno dei quali particolarmente violento durante una partita di NBA, che lo costrinse a rifugiarsi negli spogliatoi (qui l’articolo originale). Le dichiarazioni ebbero grande risonanza in quanto per la prima volta un atleta confessò apertamente i propri limiti e le proprie debolezze, sfidando quell’ideale di machismo caratteristico di certi sport, soprattutto basket e football americano, ma ora diffuso anche nel calcio. Non si tratta tanto di essere forti fisicamente per competere in sport che a livello fisico richiedono grandi sforzi, quanto più di essere forti mentalmente, per vincere e dominare l’avversario.
Nella primavera del 2020 il documentario The Last Dance (disponibile su Netflix per chi non l’avesse ancora visto) riportava l’attenzione sui Chicago Bulls degli anni ‘90 e, in particolare, su Michael Jordan. "His Airness" é sempre stato caratterizzato da una straordinaria forza mentale e da un inesauribile spirito competitivo, e non vi è alcun dubbio che queste caratteristiche ne abbiano determinato i successi (6 titoli NBA ed innumerevoli record individuali). Il documentario cerca di offrire un punto di vista olistico su quell’incredibile squadra, eppure sembra sempre finire con il focalizzarsi su MJ. In diversi passaggi si evidenzia come la mentalità di Jordan non fosse sullo stesso piano di quella dei compagni. L’immagine che ne esce è quella di un uomo che vive in una realtà particolare a cui la maggior parte delle altre persone non può aspirare. Il problema nasce quando per spronare gli altri a raggiungere lo stesso livello (o almeno a provarci) l’uomo Michael si trasforma nel tiranno Jordan, che ricorre a trash talking (insulti), atteggiamenti da vero e proprio bullo, oppure semplicemente “massacrando” in allenamento chiunque non si stesse impegnando abbastanza, come analizzato da Dario Vismara in questo articolo de L’Ultimo Uomo. Vismara centra inoltre un punto molto importante. MJ “paved the way” come si dice in inglese, ovvero ha segnato il percorso che i grandi atleti devono percorrere per diventare leggende: “Nel mondo post-Michael Jordan non basta vincere, ma bisogna vincere come faceva Michael Jordan, ovvero con un atteggiamento spietato, prendendosi i tiri decisivi e accentrando su di sé le attenzioni del mondo”. E un concetto che ha accompagnato tanti altri grandi atleti da Kobe Bryant a Lebron James, da Messi a Cristiano Ronaldo, indipendentemente dallo sport. Kobe e stato forse il personaggio che più di tutti ha incarnato i principi e lo stile di Jordan, di cui era ossessionato. L’etica al lavoro di Bryant, la sua ambizione a migliorarsi costantemente per diventare il migliore (la cosiddetta Mamba Mentality) é stata celebrata in diverse occasioni. Eppure non è esente da critiche e lati oscuri. Phil Jackson, il leggendario coach di Chicago Bulls e Los Angeles Lakers racconta di come l’atteggiamento di Bryant creasse conflitto con i compagni, soprattutto nei primi anni di carriera, e in particolare con Shaquille O’Neal con il quale entrò in una vera e propria faida. Secondo Jackson, Kobe era talmente ossessionato dal diventare migliore del suo idolo Jordan a tal punto da trascurare i propri compagni (qui un articolo in inglese a riguardo. Per maggiori dettagli si può consultare il libro di Jackson Eleven Rings, al capitolo 15).
I paragoni tra atleti attuali e grandi atleti del passato ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ad esempio tornando agli sport individuali sentiremo presto parlare di un nuovo Phelps, o di un nuovo Bolt. Solo una decina di giorni fa Lamont Marcell Jacobs compieva un'impresa straordinaria vincendo il primo oro nella storia italiana nei 100m, notoriamente la gara regina dell’atletica alle Olimpiadi. Immediatamente dopo la gara sono seguiti i confronti con le altre finali vinte da Usain Bolt nelle scorse edizioni. Pochi però si sono soffermati ad analizzare lo straordinario lavoro che ha portato Jacobs a migliorare costantemente il proprio tempo, e al di fuori dell’Italia quasi nessuno ha riflettuto sul lavoro svolto a livello psicologico con la sua mental coach.
La verità é che bisognerebbe prestare attenzione a costruire personaggi attorno a persone reali. I personaggi infatti, a differenza delle persone reali, non hanno debolezze, non hanno limiti e non hanno paure. Sono concetti astratti mentre le debolezze, i limiti e le paure delle persone reali sono vere e tangibili. Simon Biles lo ha appena confermato. A questo punto occorre fermarsi e riflettere. Che ruolo hanno i media in tutto ciò? Con la crescente attenzione mediatica e i conseguenti movimenti di denaro ed investimenti lo sport sembra ormai essere diventato un business a tutti gli effetti. Forse sono le cifre da capogiro che circolano intorno ad atleti e club di cui si legge a farci prendere le cose tanto sul personale, come se inconsciamente fossero i nostri soldi ad essere messi sul piatto. Da tifosi stringiamo inevitabilmente un rapporto stretto con i nostri campioni, proiettiamo su di loro le nostre aspettative, i nostri sogni (perché in fondo chi non ha mai sognato di vincere il campionato o una medaglia olimpica?), diventano parte integrante della nostra vita, quasi fossero un pezzo di noi.
Ed ecco che allora quando gli atleti inciampano, sbagliano o semplicemente prendono decisioni che non gradiamo ecco che ci sentiamo feriti, delusi. Potremmo chiedere a Lebron James che fu letteralmente massacrato nel 2010 dopo aver lasciato Cleveland per Miami (James vincerà i suoi primi due titoli NBA proprio in Florida). Potremmo chiedere anche a Gonzalo Higuain attaccato senza tregua dopo essere passato dal Napoli alla Juventus nel 2016 (con cui vincerà poi tre scudetti). E la lista potrebbe proseguire con molti altri nomi. Non intendo essere ipocrita, anche io come tanti altri ci rimasi male quando sentii queste notizie, forse perché ancora giovane e ingenuo mi attaccavo ad un ideale troppo romantico.
La verità e che lo sport é cambiato, ora non vi é più spazio per il romanticismo ma piuttosto é tempo di risultati tangibili, di vittorie e di medaglie. E chi se non i media hanno contribuito a diffondere questa mentalità? La colpa è pure nostra, perché attingiamo a questa mentalità e la fomentiamo, scrivendo insulti a persone che nemmeno conosciamo, ragazzi e ragazze che spesso hanno la nostra stessa età, se non addirittura più giovani.
Tornando a Simon Biles non si può che ammirare il suo coraggio nel confessare dei “demoni” che la lacerano interiormente. Il punto però è che si dovrebbe maturare una maggiore coscienza non solo attorno all’atleta, ma soprattutto attorno al sistema. Il rischio altrimenti è quello di circoscrivere il problema al singolo, ridurlo alle debolezze di una persona anziché riconoscere i limiti e le minacce di un sistema che non ha a cuore le persone reali ma solo i successi del personaggio. Ci siamo emozionati tanto in queste Olimpiadi, venendo a conoscenza di storie e drammi individuali, di cadute e di successi. L’oro di Gianmarco Tamberi nel salto in alto, cinque anni dopo l’infortunio che ne mise a rischio la carriera ne è un esempio. Abbiamo sofferto con lui e ora possiamo finalmente esultare con lui, avendone conosciuto la storia personale. Non si può naturalmente pensare di poter conoscere la storia di ogni singolo atleta, ma quasi certamente possiamo fermarci per qualche attimo e riflettere sul fatto che ognuno di essi è una persona reale, prima ancora che un personaggio.
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