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Il pallone che fa bene: un viaggio chiamato calcio

Alla scoperta dello "Sport for Development and Peace". Un racconto, per vedere il mondo del calcio con altri occhi.


Alessio Norrito

“Una barbarie come il calcio non deve assolutamente entrare in un’aula scolastica”. Era l’anno del terzo liceo quando ho sentito questa frase per la prima volta, e di tempo ne è passato. Parole autoritarie che, in un certo senso, mi hanno segnato. Da lì ho capito che era necessario che qualcuno si battesse per spiegare al mondo intero che questa frase qui è una grandissima minchiata.

Vengono dette tante frasi ad effetto sul calcio, con argomentazioni poco articolate. D’altronde quando i principali esponenti di questo sport non sono degli scienziati (anzi l’esatto opposto), è difficile dare una connotazione scientifica a 90 minuti su un rettangolo di gioco. E ci sono tanti punti in cui mi trovo d’accordo con loro. Gli stipendi, il razzismo, “il calcio moderno”.

Eppure sono tanti i grandi esperti che spesso inciampano sul campo di calcio. Spesso romanzato, è difficile vedere i benefici oggettivi di questo sport. Ed è qui che cadono tutti, alcuni con tanto di cartellino rosso. Proprio perché romanzato, romantico, credo che sia giusto raccontare la storia che mi ha portato ad oggi, per spiegare, spero stuzzicando il vostro interesse, come lo sport, e il calcio in particolare, possono essere la leva per migliorare la vita degli esseri umani.

Parto dunque da una citazione introduttiva:

“Sport has the power to change the world. It has the power to inspire. It has the power to unite people in a way that little else does. It speaks to youth in a language they understand. Sport can create hope where once there was only despair. It is more powerful than government in breaking down racial barriers. It laughs in the face of all kinds of discrimination.” - Nelson Mandela

Mi torna in mente Londra, anzi Palermo. Quando poco prima di scegliere il mio corso di studi, mi misi a leggere articoli, pareri, opinioni, saggi su quale fosse stata la lingua del futuro nel mondo del calcio: il cinese. E allora scelsi di imparare quella lì, non tanto per la bellezza della cultura cinese, che ho scoperto solo in seguito, ma per la pura necessità di avere gli strumenti giusti per quello che sarebbe stato il calcio di domani. E così arriviamo a Londra, quando iniziai e mi dovetti trovare un lavoro. Non solo per guadagnare qualcosina, ma anche per fare necessaria esperienza, per conoscere questo fenomeno chiamato calcio. Ci provai con l’italianissimo Watford, ma mi ritrovai solo di fronte ad uno stadio chiuso, con la pioggia torrenziale a farmi da compagnia. Ancora bagnato ci provai con il Chelsea, ed andò bene. Certo ero alla reception, ma nel mio piccolo ci ero riuscito, ero finalmente dentro lo stadio. Dentro Stamford Bridge.

Però da lì bisognava continuare a lavorare duro. 8 ore al giorno/notte + università. Il libro di cinese nascosto sotto il bancone della reception e la prof che mi chiedeva sempre “ma sei stanco?”. E io lo ero stanco, da morire. Ma felice. Stavo dalle 18 alle 20 ore fuori casa al giorno, il tragitto da Wembley (casa mia) a Stamford Bridge mi prendeva quasi due ore. Ma era uno sforzo necessario, uno step voluto, sudato ogni giorno. E ho continuato a sudare ogni giorno, finché il corpo, la mente, e i risultati all’università non hanno retto più.




Lasciai e mi concentrai sullo studio, dovevo fare meglio. Quindi qualche anno dopo cambiai squadra, e questa squadra cambiò me e il mio concetto di calcio. Prima ero più attratto dalle storie dei campioni, da Patrick Evra che da Marsala diventa il capitano del Manchester United (chiamasi riscatto sociale). Dai trofei, dalle storie, dagli sponsor. Dalle storie di rivincita di quel pallone tondo, che mette quasi tutti sullo stesso piano. Ma quella squadra, il Barnet F.C., quarta divisione inglese, cambiò tutto.

Anche perché il Barnet mi diede un ruolo di estrema responsabilità, forse il più importante di tutti. Servire la birra al bar dello stadio. Ed è lì che ho capito veramente come il calcio non sia dei campioni, degli sponsor, ma della gente. Può sembrare una frase fatta, ma quella bellissima squadra era una medicina sociale, era il più subdolo benessere che potesse capitare a chiunque fosse dentro lo stadio. Uno stadio molto piccolo, dove tutti si conoscevano. Una comunità, unita dal calcio, unita dall’insignificante maestoso Barnet.

Dall’alto delle chiavi del bar che portavo sempre con me, che in Inghilterra valgono più dello scettro della regina, ho avuto il modo di conoscere tante persone. Di rivederle ogni domenica, chiacchierare con loro. Tanti nonni con i nipoti, gente di ogni colore, diversa ma unita. E parlando con loro ogni domenica, di volta in volta, mi rendevo sempre più conto che questo calcio forse non era così inutile. Ma vuoi vedere che questo calcio forse, e dico forse, serviva?

La rotondità del pallone ci insegna, forse, che di fronte ad esso siamo tutti uguali. È un po’ come fare la carriola di Pirandello, ma tutti nello stesso posto, all’unisono. Tutti, a toglierci la maschera che ci tormenta per tutta la settimana. Tutti a togliercela come preferiamo, che sia facendo la carriola, tifando Barnet, Palermo o Chelsea. Non uno, non nessuno, ma centomila.

È dentro quel bar che vedevo i figli dei grandi manager della City divertirsi con i nipoti del cartolaio che ha rilegato la mia tesi di laurea. È lì che ho capito che il calcio ci da uno sfogo per essere quello che siamo, per toglierci la maschera anche solo per 90 minuti. Non da soli, ma urlando, imprecando ed esultando, gli uni accanto agli altri.




Una domenica stavo ritornando a casa dallo stadio, avevamo appena giocato contro il Portsmouth, la squadra più blasonata del campionato. Dopo aver chiacchierato sulla metro con alcuni tifosi della squadra ospite, torno a casa e ricevo una mail che avrebbe decretato il mio futuro universitario. L’anno seguente sarei andato all’università di Edimburgo, a studiare Sport Policy, Management ed International Development.

E così, finito l’equivalente della triennale italiana con una tesi sull’impatto degli sponsor cinesi sul calcio europeo e viceversa, mi trasferisco ad Edimburgo (per la seconda volta nella mia vita). E lì per un anno studio solo sport, in tutte le salse. Dalle materie che più mi erano familiari come marketing, strategic management, advertising, a quelle più inaspettatamente belle come policy, media e soprattutto international development.

Per la prima volta in vita mia, lo studio non era un peso. Era tutto troppo interessante, ogni singolo giorno. Il corso, estremamente ben strutturato e ricco di opportunità, mi aveva preso come non mai, e per la prima volta in vita mia ho raggiunto dei risultati eccezionali nello studio.

Tra le lezioni più interessanti, vi erano sicuramente le guest lectures, dove venivano invitati degli ospiti a parlare della loro esperienza o dei loro progetti. Dal Manchester City agli Spartans (se non li conoscete vi consiglio vivamente di googlarli), una delle frasi che più mi è rimasta impressa può tradursi in italiano così: “Mi ci sono voluti più di 10 anni per lavorare finalmente nello sport, non è facile. Però se siete appassionati e se lavorerete duro raggiungerete il vostro obiettivo”. E subito lì ho pensato: “Minchia, 10 anni!”.



La magistrale finisce, mi laureo con lode da Edimburgo e non tocco più un pallone da calcio per due anni. Metaforicamente più che letteralmente. Infatti mi specializzo sempre di più nell’ecommerce, quasi commettendo l’errore di non dare seguito a quanto mi ero prefissato fin dal liceo. Eppure non ho ancora la mia dimensione nel mondo dello sport, nel mondo del calcio. Non so ancora cosa mi piace di quel mondo, perché in realtà mi piace tutto. E si sa che ogni settore vuole la sua specializzazione. Ma ad ogni modo non mollo, continuo a lottare. Con mille distrazioni, mille ostacoli ma continuo, in silenzio, ma continuo. Questo silenzio, che mi sono imposto di tenere dentro, termina due anni dopo quando mando un messaggio ai miei amici e familiari. È un’immagine con su scritto un testo. È il titolo di una ricerca con su scritto: “Sport for Development and Peace: inclusion practices for forced migrants and refugees in Sicily”. Sport per lo sviluppo e per la pace, pratiche d’inclusione per migranti e rifugiati in Sicilia. La firma, è quella mia.

Ho meditato su quale fosse la strada giusta da prendere, e alla fine ho trovato questa. E ora, se vi state chiedendo “e tutto sto pippone cosa c’entra?”, esaudisco subito il vostro desiderio. Avete mai pensato allo sport come metafora di vita? Se praticate sport, avete mai imparato qualcosa dallo sport che praticate? Io si, e tutta questa storia che vi ho raccontato la devo ai valori che lo sport, anzi, che il calcio, mi ha insegnato.

Innanzitutto il calcio è strategia, bisogna studiare il campo e l’avversario. Lo diceva anche Sun-Tzu nell’Arte della Guerra. Per questo ho pensato a cosa studiare prima di immolarmi, per migliorare le mie capacità ed essere all’altezza della sfida. L’allenatore sceglie il modulo più adatto, io ho scelto gli studi che ritenevo più adatti.

Poi il calcio è resilienza. Non mollare mai. A Watford, all’esterno di Vicarage Road, ho preso forse la delusione più grande. Era il mio esordio e perdevo 2-0 fuori casa. Però non mi sono dato per vinto e mi sono ricordato che una partita dura 90 minuti. Per questo ho continuato a giocare e sono finito al Chelsea. “Non mollare mai”, è questo lo slogan scritto nella mia sciarpa rosanero, cimelio che quest’anno compie 20 anni.

Come già detto, il calcio è aggregazione, è soprattutto comunità. Ed è quanto successo ad High Barnet che me lo ricorda sempre. Sembrerà strano, ma il calcio ti insegna ad amare. Perché il Barnet (così come il Palermo), perderà, retrocederà, ma sarà sempre e per sempre amato. Ed è questo quello che conta, giocare per godersi un viaggio di 90 minuti e tutte le emozioni che ti regalerà.

E sarà pure banale, ma il calcio è sostentamento.


Perché siamo disposti a non demonizzare corporazioni che hanno il solo ed unico scopo di arricchirsi, ma siamo in grado di sputare odio verso lo sport? Ripeto, non sono d’accordo con i compensi dei calciatori, ma è così difficile riuscire a vedere oltre il professionismo? Non si può fare impresa socialmente utile, sfruttando il calcio come veicolo?

Ecco qui, questo è il calcio. Anche se romanzato, ho provato a spiegarvi tramite un racconto di cosa si parla quando trattiamo di Sport for Development and Peace. Ma per gli amanti delle definizioni, ecco di seguito il lato scientifico di questo romanticismo. Infatti la disciplina è nata come ipotesi del ruolo dello sport nel raggiungimento dei Millennium Development Goals indicati dalle United Nations. Dopo il 2015 si è consolidata, diventando parte dell’agenda per raggiungere i Sustainable Development Goals del 2030.


Lo specchietto di seguito vi mostra alcuni punti su come lo sport può aiutare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite. Se volete una definizione personale ancor più semplice, e spero che concorderete, si tratta di sport in grado di migliorare il mondo in cui viviamo.

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