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Siamo (ancora) vittime del modello del deficit



Studiare la scienza è un compito delicato e difficile, che richiede anni di preparazione, cura e dedizione. Allo stesso modo, comunicare la scienza è un lavoro molto complesso. La diffusione e divulgazione di nozioni, risultati, nuove scoperte, e innovazioni a un pubblico che non ha le stesse conoscenze degli esperti è un punto fondamentale di ogni materia scientifica.


Tra i modelli comunicativi della scienza ai non esperti, uno dei più impiegati (se non il più impiegato) è il cosiddetto modello del deficit. Questo si fonda sul fatto che tante persone non esperte, mancando delle informazioni di base per interpretare correttamente le scienze, hanno poca fiducia nelle discipline, con le rispettive personalità di riferimento. Spesso sospettose e diffidenti, rispondono in modo ostile ai risultati delle varie ricerche scientifiche, alle innovazioni e alle nuove scoperte, con toni forti e molto pericolosi (il rischio diffusione di fake news, infatti, è sempre dietro l’angolo). Ecco che, per combattere questo deficit, gli esperti ritengono che più informazioni siano fornite, più una persona abbia la possibilità di acquisire le conoscenze necessarie per comprendere ciò che viene divulgato.


Il modello comunicativo in questione, però, è aspramente criticato. Molti non vedono una costruttività in questo modo di divulgare la scienza, perché unilaterale. Riversare più informazioni possibili a coloro che non sono esperti non prevede alcun dialogo e confronto, fondamentale in questo tipo di processo. Inoltre, il modello del deficit non tiene conto di differenze sociali, culturali, o politiche, anche queste da non trascurare.


Nonostante un diffuso biasimo, il comportamento e l’approccio di molti esperti nel comunicare la scienza sembra ancora fare leva sul modello del deficit. Ancora oggi, tantissimi ricercatori, professori, dottori accumulano e diffondono informazioni su informazioni al pubblico generale attraverso ogni canale: tv, radio, social networks, per citare i più popolari. Questo, alla lunga, ha comportato diversi problemi. Innanzitutto, una marea di nozioni nuove e difficili inonda le menti delle persone, che sono ogni giorno travolti da numeri, dati, dichiarazioni di persone diverse sullo stesso tema o problema. Un mondo dove le informazioni, nel corso di una giornata, viaggiano a una velocità impressionante, accumulandosi in modo incontrollabile, rende di per sé difficile la comprensione. A questo, va aggiunta la grande guerra ingaggiata, a colpi di insulti e umiliazioni, da parte di un crescente numero di esperti. Soprattutto nell’era dei social media, sempre più professori, dottori o ricercatori hanno iniziato a inasprire i toni delle proprie divulgazioni, lasciando da parte i contenuti in sé, e cercando modi invece sempre più originali per offendere colleghi che hanno un punto di vista diverso dal loro (non necessariamente sbagliato, tra l’altro).


Il pubblico di non esperti, i ricevitori di questo sistema comunicativo della scienza, negli ultimi anni, è stato così sovraesposto a un ingente numero di dati, numeri, opinioni, e la cosa ha comportato un ulteriore allontanamento da parte di un crescente numero di persone, sempre più sature e confuse. Si è sviluppato un atteggiamento sempre più nichilista da parte del pubblico. Non parlo di complottisti, negazionisti o affini; ma di tante altre persone che, stanche di un bombardamento mediatico caratterizzato da notizie spesso contrastanti e antitetiche l’unica con l’altra, non si prestano più ad ascoltare gli esperti. Per vedere questo, basta aprire un qualsiasi social network, cercare una qualsiasi notizia sulla pandemia, e troverete commenti di persone che, lamentandosi di questa situazione, implicitamente o esplicitamente, si trovano a essere ostili verso la scienza e le figure che la rappresentano.

La scienza è fondamentale nella nostra vita. Salva le persone, migliora il nostro modo di vivere, e risolve tantissimi problemi che si creano nel mondo. Ma come si studia e si fanno ricerche, anche comunicare la scienza è indispensabile. È parte integrante del processo, infatti, far uscire i risultati e le scoperte dal laboratorio, divulgandoli anche ai non esperti. Tuttavia, il modello comunicativo deve essere costruttivo e virtuoso, portando all’avvicinamento degli esperti ai non, in un clima di reciproca fiducia. Ma ora come ora, quello che vediamo, sembra essere tutto il contrario purtroppo. Siamo (ancora) vittime del modello del deficit: un modello di per sé obsoleto e limitante, ma che viene ancora oggi impiegato da tanti esperti e fomentato da personaggi che, con atteggiamenti poco utili alle cause nobili della scienza, preferiscono godersi i loro quindici minuti di gloria mediatica.


È utopistico pensare che tutto questo possa cambiare? No, ma resta comunque molto difficile, perché la speranza è che un giorno qualcuno scenda dal proprio piedistallo, qualcun altro si affidi, e che il dialogo e l’ascolto diventino un mantra nel comunicare la scienza. E la cosa sembra molto lontana dal presente.



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