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Vendetta e Perdono


Irlanda, 1952. In un contesto ancora aggrappato ad un rigido cattolicesimo, Philomena Lee, adolescente fino ad allora ignara del piacere sessuale, dà alla luce un figlio fuori dal matrimonio. Ripudiata dalla famiglia, viene rinchiusa in un convento irlandese in cui ragazze-madri – costrette ai lavori forzati per espiare il proprio peccato – sono in attesa che i figli vengano dati in adozione in cambio di denaro.


Più di cinquant’anni dopo Philomena è ancora in cerca del suo bambino. Sogna, pensa, immagina: talvolta è un uomo felice e soddisfatto della propria vita, altre teme per lui e per quel che potrebbe aver passato. Non ha niente a cui aggrapparsi se non una foto che porta sempre con sé. C’è un segreto che si tiene dentro da tutta una vita e con il quale ha convissuto tra speranze attese e paure inaspettate.


Martin Sixsmith è un giornalista che ha da poco perso il lavoro presso il partito laburista britannico: cinico, scontroso, è appassionato di storia e si rifiuta di scrivere di “vita vissuta” perché si tratta di una lettura per persone poco intelligenti. Andando oltre la sua iniziale resistenza, Martin decide di raccontare la storia di Philomena e di accompagnarla nella ricerca del figlio perduto: è un viaggio tra menzogne, abbandoni, dogmatismi, ma in cui amore, desiderio e perdono conservano ancora le loro radici.


Come spesso accade, c’è una stretta relazione tra cinema e psicologia perché la cinepresa racconta in qualche modo di vita vissuta e spesso l’immagine è più incisiva di tante parole. Non a caso l’Istituto di Alta Formazione e di Psicoterapia Familiare di Firenze (IAF. F) ha una rubrica che si occupa proprio di questo binomio e da cui è stata estrapolata questa riflessione.

Philomena racconta di un nodo cruciale da affrontare per rilanciare la speranza nei legami. Laddove ingiustizia, rancore, dolore avrebbero potuto far soccombere ogni possibilità di bene, è l’opportunità di “mettere parola”, di creare uno spazio condiviso in cui potersi raccontare – ma anche poter ascoltare ciò che l’altro spesso non dice – che apre alla possibilità di reinvestire e non morire in un cinismo privo di speranza. Philomena trova il coraggio dopo cinquant’anni di condividere, di “mettere in parola”: prima con sua figlia, poi con Martin ed infine con chi quel dolore lo aveva generato. Cerca e trova risposte a domande che erano rimaste in uno spazio sospeso, altre invece resteranno appese al filo del “non conosciuto” che inevitabilmente permea la storia di ciascuno di noi.


È il perdono a fare la differenza, è lo sguardo di suor Hildegarde quando Philomena le dice: “io la perdono”. Uno sguardo che prende improvvisamente consapevolezza, uno sguardo di chi vede sgretolarsi la barriera fino ad allora posta nei confronti del mondo, uno sguardo di chi per la prima volta sperimenta un incontro sincero con l’altro ed è proprio in questo incontro che Philomena dà una grande lezione di vita: il perdono non cancella il dolore, ma apre alla possibilità di rilanciare la speranza nei legami, di continuare ad investire sulle relazioni nonostante le ingiustizie subite.


“Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”, cantava De André.


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